Assolti. Pace, in tutti i sensi. Pace alle telecamere, che hanno violentato la vita di tutti i giovani in causa, dei loro parenti e soprattutto di Amanda e Raffaele, perfetti personaggi da tragedia, lei bella e dannata, lui debole, traviato o forse no, gelido calcolatore. Pace alle piazze, turbe manzoniane da assalto ai foni, che confondono la giustizia con la gogna, il linciaggio e non hanno pudore di gridare parole che offendono la nostra civiltà. Pace anche a genitori della povera Meredith, per cui giustizia è drammaticamente sinonimo di vendetta, a prescindere dalla verità. Padre  e madre offerti a un bombardamento mediatico che ha ampliato l’eco di un dolore rabbioso, comprensibilmente impotente e rabbioso.
Ma che hanno pesantemente condizionato i pensieri e i pareri. Pace ai due giovani che possono riprendersi, speriamo nel silenzio, le loro vite. Vogliamo credere che lo scrupolo per un possibile errore avrebbe deciso anche del futuro di due delinquenti più poveri, più soli, con meno supporter al di qua e al d là dell’oceano, Poi, toccherebbe il coraggio, a scopo curativo, di affondare il coltello nella piaga purulenta della nostra giustizia. Quattro anni di teatro dell’assurdo, dove si condanna  si assolve con formula piena. Quattro anni di indagini sbandate, di macroscopici errori, di testimonianze contradditorie, di prove che non tornano.
Perché condannare, allora. O perché assolvere con così ostentata e profetizzata sicurezza, se sussistono dubbi.
Perché quattro anni, anzitutto, troppi, per due ragazzi innocenti, per chi li ha sofferti giorno dopo giorno. Non ci preoccupa il pregiudizio scontato dei soloni americani: da loro le Amande, tanto più se non sono pallide e bionde, rischiano il lettino e l a siringa della buona morte. Ci preoccupa che la giustizia sia roba da bookmakers, da talk show a tarda sera, da chiacchiere al bar o al mercato.
Che la simpatia o l’antipatia per i protagonisti possano piegare il nostro sguardo ala persona, che sempre, in qualunque caso, ha dritto alla pietà e ad una possibilità di riscatto. Vogliamo ricordare che Erika, assassina di sua madre e suo fratello, è libera dopo dieci anni. Che abbiamo ascoltato le testimonianze di criminali incalliti, redenti dal lavoro, da un’amicizia, dalla grazia che può sempre cambiare il cuore.
Amanda e Raffele non sono colpevoli, dice la sentenza d’appello.  Resta il dubbio, dilaniante. Ma il dubbio non giustifica il carcere a vita. Meglio che tornino a casa, lei ai boschi di Seattle, lui al sole e al mare della sua Puglia. Speriamo per loro che l’esperienza di questi interminabili anni non sia inutile. Che li fortifichi e li renda più generosi, sinceri, seri con la vita. La stavano buttando, in quella Perugia notturna obnubilata dall’alcool e da veglie stordenti, e forse solo per un caso è toccato a Meredith, e non a loro. Non ci si brucia così, a vent’anni. Hanno una responsabilità morale, si è detto, per aver giocato coi sentimenti.
Per aver mentito. Forse era solo paura. E comunque la morale riguarda la coscienza, il peccato. La giustizia non condanna le responsabilità morali, o mezza politica e intellighenzia nostrana dovrebbe nascondere il proprio passato, e mollare le poltrone. La giustizia buona nasce invece da un atteggiamento morale volto al bene, della persona e della società. Tocca un esercizio coraggioso e vigile, per cercare la verità di un caso, con l’occhio fisso alle verità più grandi.
E una buona dose di umiltà, per riconoscere che si può sbagliare, per prendersi le proprie responsabilità dei propri errori, e chiedere perdono.



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