Per la prima volta un giudice dell’Alta Corte inglese esprime una sentenza relativa a un caso di richiesta di interruzione dell’alimentazione e delle cure relativo a un paziente in stato vegetativo. Il parere del giudice è che il paziente venga lasciato in vita e che anzi ci si prodighi per migliorarne ulteriormente le condizioni. E’ il caso che ha visto coinvolto il giudice Jonathan Baker che di fronte alla richiesta dei familiari di una donna di 52 anni, colpita in seguito a una infezione da danni cerebrali sin dal 2003, ha disposto una indagine dalla quale ha tratto le motivazioni che, seppur assai flebili, la donna mostra segni vitali. Un caso destinato a far scalpore. “La sentenza è talmente ragionevole e condivisibile” commenta il Professor Francesco D’Agostino, docente di filosofia del diritto e Presidente dell’Unione giuristi cattolici a IlSussidiario.net “che c’è poco da commentare: gli stati vegetativi sono un enigma, è difficile prevedere come possano evolvere in alcuni casi. A volte, sono situazione rare ma ci sono, possono essere reversibili. E’ comprensibile che di fronte a una richiesta di vera e propria eutanasia magari con la sospensione del’ alimentazione il medico e in questo caso il giudice dicano che invece il dovere è il contrario, cioè alimentare e praticare tutte le possibili terapie che in altri casi hanno giovato ad altri malati nella stessa situazione”.
Professore, un caso senza precedenti in Inghilterra, dove comunque l’eutanasia è illegale. Come mai allora tanto scalpore?
Nel Regno Unito è illegale l’eutanasia intenzionale ed attiva. In questo senso non meraviglia che un magistrato abbia detto che non si può uccidere un paziente neanche in situazioni così estreme. Questo dovrebbe chiudere il discorso se non fosse che da un po’ di tempo arrivano notizie dall’Inghilterra secondo le quali pratiche di eutanasia analoghe a questo caso non vengono perseguite dai magistrati.
C’è da dire che in Inghilterra il Common Law non prevede, a differenza del diritto italiano, l’obbligo dell’azione penale. Essa è affidata alla discrezionalità del giudice di ritenere ci sia un evento così rilevante da portare all’imputazione.
Come diceva lei però è un dato di fatto che la magistratura inglese applica una certa tolleranza a questo tipo di situazioni.
Esattamente, ma c’è da dire anche dell’altro. Siamo davanti a una realtà davvero intricata perché si continua sistematicamente a confondere la rinuncia all’accanimento terapeutico con l’eutanasia vera e propria. Purtroppo questa confusione dal punto di vista dottrinale è inammissibile, sono due cose completamente diverse. In molti casi concreti vengono confuse per il carattere terribilmente complesso della situazione del malato”.
Può spiegarci meglio questo passaggio?
Faccio un esempio: se questa donna è in coma da anni ed è in stato di grande fragilità fisica e arriva una polmonite doppia e il medico non le dà gli antibiotici questo non andrebbe quantificato come eutanasia, ma come sospensione di un trattamento che potrebbe essere ritenuto dal medico futile, inutile, sproporzionato.
Lei sembra indicare che ogni caso è diverso dall’altro.
Proprio così. Si tratta di vedere qual era la situazione concreta di questa malata perché lo stato vegetativo ha differenziali sconfinati tra persona e persona. Eluana Englaro ad esempio, anche perché giovane, non aveva bisogno di alcun farmaco, solo alimentazione e idratazione, mentre altri malati parimenti in stato vegetativo sono però così dissestati biologicamente che hanno bisogno di farmaci di sostegno vitale.
La decisione del giudice inglese sembra comunque andare contro una mentalità che è sempre più diffusa, quella che prevede l’eutanasia.
La mentalità che sta prendendo piede è incredibilmente rozza dal punto di vista bioetico perché appiattisce e rende omogenee situazioni profondamente diverse fra loro: confonde l’eutanasia con la sospensione dell’accanimento terapeutico; introduce un criterio fragilissimo quale la volontà del malato che il più delle volte viene ipotizzata, ma che non ha nessun fondamento oggettivo riscontrabile.
Leggevo in questi giorni su Repubblica una lettera di alcuni familiari di un malato terminale di 98 anni.
La famiglia chiedeva la sospensione dell’alimentazione perché bisognava rispettarne la volontà: ma io mi chiedo, dove si possa riscontrare giuridicamente la volontà di un vecchio di 98 anni malato terminale? E’ un mistero. E’ chiaro che a quell’età e in quella condizione non c’è più volontà e capacità di discernere.
Dunque la famiglia che pretende di rappresentare la volontà del malato non è sufficiente.
Non solo, ma si gioca anche con il rispetto della professione medica. Un medico che diventerebbe un burocrate che prende le direttive dalla famiglia del malato e le applica come se non ci fosse una deontologia, una coscienza del medico il quale dovrebbe essere totalmente autonomo dalla volontà della famiglia e anche da quella del malato. Obbiettivo del medico è curare, non eseguire la volontà del suo cliente.
Sembra che il confine su cui si determina quando è il caso di sospendere le cure si faccia sempre più sottile da parte di quanti sostengono il trattamento di fine vita.
Siamo in zone grigie di altissima complessità. L’imperativo categorico è di non cadere in una semplificazione ideologica e infantile. Chi cioè da una parte dice che la vita è sacra, dobbiamo garantire che il cuore batta fino a quando è possibile farlo battere. In questo caso cadiamo in accanimento terapeutico e in una psicologia infantile. Chi è favorevole all’accanimento terapeutico non capisce che bisogna rispettare il processo del morire quando è inevitabile e irreversibile.
E dall’altra parte?
Ci sono i fautori dell’autodeterminazione che dicono il criterio guida è la volontà del malato e se manca questa volontà c’è l’assicurazione della famiglia o del fiduciario che ha raccolto la volontà del malato ad assicurare la sua volontà di morire. Come se questo possa avere ragioni di giustizia.
Non usiamo tale pratica per il testamento patrimoniale, cioè quando uno muore senza testamento nessuno può fare testamento al posto suo, e vogliamo surrogare la mancanza di un testamento biologico con fiduciari o dei parenti.
Ci muoviamo tra queste due polarità estreme: sacralità della vita esasperata e anche infantile al limite della nevrosi e dall’altra uno spirito illuministico che esalta la autodeterminazione come se fosse la bacchetta magica.
Esiste una terza via, più ragionevole?
La vera via è questa: il medico deve badare al bene del paziente che significa nella stragrande maggioranza dei casi la sua sopravvivenza. Ma quando la vita è definitivamente compromessa e il processo del morire inarrestabile, il bene del paziente diventa non essere sottoposto ad accanimento stupido e molte volte doloroso. So di prendermi inimicizie da ambo le parti in causa, ma io non sto dando un criterio risolutivo di tipo meccanico.
Il criterio che suggerisco tra l’altro a mio avviso è abbastanza coerente con il disegno di legge di fine vita: il medico deve ascoltare la volontà del paziente e il testamento biologico, ma alla fine il medico per il bene del paziente deve prendersi le sue responsabilità e non tenere conto del testamento biologico o viceversa anche se la famiglia dice accanitevi.
Una via di mezzo difficilissima, ma che bisogna pazientemente portare all’attenzione dell’opinione pubblica. Il guaio è che la bioetica è caduta in mano alla politica e i politici utilizzano come un braccio di ferro di tipo parlamentare qualcosa che invece merita ben altri interessi.
(a cura di Paolo Vites)