La tragedia di Barletta è resa ancor più insopportabile dal fatto che le quattro operaie morte nel crollo della palazzina, mentre stavano lavorando nella maglieria del seminterrato, hanno perso la vita per 4 euro l’ora. Guadagnavano per sopravvivere. Erano senza contratto, benché avessero ferie e tredicesima pagate. Si spaccavano la schiena dalle 8 alle 14 ore al giorno – a seconda delle commesse – per riuscire a pagare mutui e bollette. Lavoravano in nero. Come molta gente. Al Sud, ma non solo.
«Si tratta di un fenomeno estremamente diffuso, che rappresenta un disegno più o meno consapevole di criminalità organizzata», spiega, interpellato da ilSussidiario.net Walter Passerini, esperto di mercato del lavoro e Vicedirettore della Scuola di giornalismo ¨Walter Tobagi¨. Contestualmente all’indagine per disastro colposo condotta dalla Procura di Bari, la Guardia di finanza sta acquisendo la documentazione fiscale per accertare la posizione delle lavoratrici. L’azienda (la figlia 14enne dei titolari è morta nel crollo) pare che ufficialmente, non esistesse. Di certo, non era l’unica a trovarsi in questa situazione: «Secondo quanto si è riuscito a calcolare, con i dati dell’Inail e della Banca d’Italia, la ricchezza prodotta dal lavoro sommerso – continua Passerini – ammonta a circa 300 miliardi di euro, praticamente a un quarto del Pil. Se aggiungiamo a quello che, in qualche modo, è misurabile, quello della criminalità organizzata, arriviamo a circa il 50% del Pil». Un fenomeno di enorme portata, non solo dal punto di vista del giro d’affari, ma anche delle persone coinvolte.
«I lavoratori in nero, in Italia, si è calcolato che sono circa 5 milioni». Sul territorio, esistono marcate differenze. «Nel Sud è più diffusa l’”impresa nera”, di cui quello di Barletta è un triste esempio. Ovvero, aziende che, sulla carta, non esistono. Al Nord, il sommerso è più facilmente riscontrabile nel lavoro autonomo – artigiani e commercianti – e nella piccola impresa, laddove gli imprenditori affermano che, se così non facessero sarebbero destinati al fallimento, a causa delle tasse e del costo del lavoro». Eppure, le soluzioni ci sarebbero; «c’è una legge, ad esempio, la 183, del novembre 2010 che stabilisce multe molto pesanti».
Ma, ovviamente, la legge, di per sé, non basta. «Il problema è talmente capillare che devono esser messe in campo almeno quattro misure. Primo: occorre aumentare il numero degli ispettori del lavoro, siano essi del ministero del Lavoro, dell’Inps o dell’Inail. Invece, sono stati ridotti; secondo: il lavoro nero è una forma di concorrenza sleale, per cui tutte le imprese dovrebbero coalizzarsi contro le aziende che praticano il sommerso; terzo: i lavoratori devono prendere coscienza che i soldi percepiti in nero sono sottratti al proprio futuro contributivo e pensionistico; quarto: gli enti locali devono smetterla di accettare che sul proprio territorio esistano imprese del genere. Spesso, infatti, i comuni, purché la gente abbia un lavoro, sono disporti a chiudere un occhio».