Tempo di periodiche manifestazioni di protesta, con protagonisti in particolare studenti delle scuole superiori e dell’università.

A sentire i protagonisti, si tratta di azioni contro i fattori che hanno determinato la crisi attuale, in primis i grandi poteri finanziari, le banche, i “poteri forti”, artefici, secondo loro, di tutte le ingiustizie.



Al di là del rischio di ideologizzazione di qualche gruppo o movimento sotto le diverse sigle, si tratta però di azioni-contro che non devono essere guardate con distacco e diffidenza. Nel senso di forme ordinarie di democrazia.

Il problema è, potremmo aggiungere a margine, che non ci si può limitare alla protesta senza un contraltare di proposte, di opzioni di miglioramento, di spinte al cambiamento verso forme inedite di giustizia, di verità, di bene comune. Se non vi è questa interfaccia, potremmo concludere, la protesta fine a se stessa rischia al limite di appagare le frustrazioni individuali o di gruppo, ma di mantenere la realtà ferma alle sue contraddizioni. Inutile poi lamentarsi.



Credo però, per correttezza, che non dovremmo, in poche parole, avere paura di dire questa semplice verità ai giovani di oggi: indignarsi è senz’altro positivo e utile, di fronte ad una ingiustizia, ad una situazione critica, come presa cioè di coscienza che sconfigga il rischio dell’indifferenza. Ma una presa di coscienza pubblica, rispetto ad una situazione difficile,non può limitarsi solo alla protesta. Perché è essenziale che oltre alla protesta l’attenzione si concentri sulle proposte concrete, fattibili, perché il cuore della nostra vita non è indignarsi, ma impegnarsi, tutti i giorni, per migliorare le cose che non vanno, in prima persona. L’atto di coscienza, pertanto, è necessario per favorire la partecipazione, ma non sufficiente.



Le continue e ripetute giornate di mobilitazione studentesca devono quindi essere ripensate, per non trasformarle, volenti o nolenti, in strumenti ideologici di gruppi conservatori, chiusi alle novità del nostro “villaggio globale”, contrari a reali forme di pari opportunità e quindi di giustizia e di equità. Aspetti questi non sempre presenti, ce lo dobbiamo dire, tra gli slogans, al di là dei soliti richiami ai politici di casa nostra, degli “indignados”, “draghi ribelli” e altre sigle. Giusto quindi chiedere chiarezza, trasparenza, norme eque sugli intrecci tra economia, politica e finanza. Ma non basta.

La scelta, ad esempio, del 17 novembre come giorno di protesta, come è noto, è legata a due drammatici episodi: al 17 novembre 1939, con centinaia di studenti cecoslovacchi uccisi dai nazisti solo perché si opponevano alla guerra, e al 17 novembre 1973, quando i colonnelli greci sgomberarono con i carri armati il Politecnico di Atene.

Il richiamo simbolico alla data dunque dice la presa di coscienza, come forma suprema di “resistenza” di fronte alla violenza diventata sistema. Ma noi non ci troviamo sotto un regime, ma in una democrazia. Ed in una democrazia essenziale è l’etica della responsabilità, come ricerca della mediazione tra diritti e doveri, con giustizia ed equità.

Per farmi capire riproduco una targhetta che ho posto sul mio tavolo di preside di Liceo, il più grande Liceo italiano, con oltre 2000 studenti: “Sei qui con la soluzione o fai parte del problema?”.

L’importante, dunque, è che la democrazia diventi occasione di crescita per tutti, cioè una occasione preziosa non per moltiplicare slogans fumosi, ma per andare più addentro alle complessità che ci attanagliano, tanto da rendere sempre meno determinante, per la vita di un Paese, la democrazia sostanziale. Le inter e multi-dipendenze, quelle che stanno realizzando il “villaggio globale”, da decenni al centro di infinite analisi socio-economiche, stanno nei fatti sottraendo ai cittadini dei singoli Paesi ogni possibilità di auto-determinazione. Questo è il punto. Perché qui si annidano la necessità e l’urgenza dello sviluppo, in forma ovviamente pacifica, di quell’ordine internazionale, frutto di istituzioni mondiali, capaci di governare, secondo regole chiare, i diritti e le responsabilità. Non basta, tanto per capirci, rifugiarsi nel nuovo slogan “né Tremonti né Monti”, cioè nelle parole vuote.

Ricordo un verso di una canzone di Giorgio Gaber: “La libertà non è uno spazio libero, la libertà è partecipazione”. Verso bellissimo. Quindi anche il diritto sacrosanto alla libera manifestazione del proprio pensiero deve poi comportare la serietà della conoscenza, la “fatica del concetto”, senza limitarsi a ripetere frasi fatte, luoghi comuni. Più che “contro”, “per”.

Quindi anche una manifestazione, se fatta con questi intendimenti, come ogni assemblea a scuola o all’università, può/deve diventare esercizio di conoscenza e di intelligenza. Per il bene di tutti. Senza nessuna forma di violenza, come è invece è successo di recente a Roma quando alcuni “black-bloc” scelsero la violenza per la violenza.