E’ il 26 novembre di un anno fa, quando la piccola Yara Gambirasio, 13 anni, non fa ritorno a casa sua. E’ l’inizio di una terribile storia che terrà con il fiato sospeso l’intera Italia: la giovane si era recata alla palestra da lei frequentata, poco distante da casa sua a Brembate nel bergamasco. Doveva consegnare qualcosa alla sua insegnante e quindi tornare subito a casa. Non ci tornerà mai più: il suo corpo viene trovato tre mesi dopo gettato malamente in un campo a pochi chilometri di distanza. Da allora, quasi un anno di indagini serrate che non hanno mai portato a nulla di concreto. L’ultima notizia è che gli inquirenti vogliano chiedere aiuto all’Fbi, negli Stati Uniti, in quanto avrebbero a disposizione metodi scientifici più tecnologicamente avanzati. Le indagini sono infatti ormai arenate da mesi sullo studio di migliaia di dna prelevati alla popolazione del luogo: non se n’è mai cavato nulla. Qualche giorno fa si era parlato di svolta clamorosa: una decina di dna che portavano tracce comuni con quelle trovate sugli indumenti di Yara. Invece, anche questa volta la smentita. IlSussidiario.net ha voluto chiedere al professor Alessandro Meluzzi, esperto di cronaca criminale e di psicologia, un parere sul caso mai risolto: chi ha ucciso Yara Gambirasio?



Meluzzi: Yara Gambirasio un anno dopo e ancora niente di concreto per la scoperta dell’assassino. Come mai, secondo lei?
Ci si è affidati purtroppo totalmente al metodo scientifico. Tutte le indagini che prefissano il valore della prova scientifica in assenza di un lavoro preliminare, basato sul metodo ipotetico deduttivo, e che cercano di costruire una narrazione plausibile, sulla base di eventi razionali, alla fine rischiano  di darci questa situazione. Cioè di non riuscire a giungere a nulla di concreto.
Cosa intende per indagini basate sul metodo ipotetico deduttivo? Che cosa gli inquirenti avrebbero dovuto invece privilegiare?
A tutt’oggi risultano del tutto ignorati numerosi elementi in quelle che sembrano le parziali risultanze della magistratura indagante. Parlo di alcuni fatti clamorosi, e cioè: la presenza di tracce di collante nei polmoni di Yara, i segni probabili di un taglierino sul suo corpo, le tracce olfattive dei cani molecolari che portano al cantiere di Mapello, le intercettazioni telefoniche del marocchino Fikri.
Di fatto l’unica persona seppur per poco tempo tirata in ballo e sospettata.
Già, e non si capisce chi possa aver preso tale abbaglio clamoroso nella traduzione della sua telefonata: “Mio Dio speriamo di trovarla”, oppure “Mio Dio non sono io che l’ho uccisa”. Come è possibile fare traduzioni così misteriosamente divergenti? Per non dire poi dell’altra frase: “l’hanno uccisa davanti al cancello”, che Fikri disse al telefono parlando con la sua fidanzata. Come è possibile ignorare ed eliminare testimonianze così altamente indicative?
Invece ci si è gettati a capofitto nell’esame dei dna…



Circa 10mila test fatti a compagni di scuola, genitori dei compagni di scuola, vicini di casa. Ma invece non si è tenuto conto di un altro elemento importantissimo:  una quantità di lavoratori legali e illegali, subappaltanti o direttamente impiegati presenti nel cantiere e che sono spariti dopo il fatto. Una quarantina di essi è tornata ai propri Paesi nella settimana successiva alla sparizione di Yara, e molti altri dopo.
Non dimentichiamoci poi  del furgone trasportato in Marocco e che nessuno ha mai ispezionato. E ancora: il corpo di Yara è stato ritrovato in un prato a poche decine di metri dai capannoni dove avevano lavorato le stesse ditte appaltatrici del cantiere.
Una inquietante serie di omissioni da parte degli inquirenti, insomma.
Anziché andare dietro a fatti evidenti anche dal punto di vista anatomo patologico, si è preferito pescare nella rete del mucchio con gli esami di migliaia di dna per arrivare a questa conclusione incredibile delle dieci famiglie possibili e compatibili con anche un parente coinvolto. Un parente poi che dovrebbe essere un parente lontano perché non è nessuno dei parenti conviventi.
L’opinione pubblica invece secondo lei come ha vissuto il caso?
C’è un chiaro spasmo nel cercare a ogni costo il colpevole nei vicini di casa, ma c’è un rischio nell’indagine: una specie di tifoseria di tipo leghista e di destra che spera che il colpevole sia un extracomunitario possibilmente illegale e una tifoseria politicamente corretta che spera sia un vicino di casa, pensando che da tutto questo possano scaturire vantaggi per una o per l’altra parte. Per una indagine seria, invece, bisogna partire da fatti precisi.
Vengono in mente le medesime polemiche sulle indagini scientifiche che hanno portato alla scarcerazione di Amanda Knox.
Bisogna tenere conto che i procedimenti scientifici vanno benissimo quando servono a confermare una ipotesi ipotetico deduttiva rispetto alla quale l’indagine scientifica à l’elemento che dirime gli ultimi dubbi. Ma pensare che il fatto scientifico serva per pescare a strascico come pescassimo sardine nel mar dei Sargassi riempie invece la rete solo di alghe. Ed è quello a cui stiamo assistendo.
Che ritratto si è fatto lei del potenziale assassino, dal punto di vista psicologico?



Per prima cosa non è stata una persona sola a uccidere Yara. Una persona sola non è in grado di sollevare la maglia e il giubbotto, fare dei segni con il taglierino mantenendo ferma la persona e fare anche probabili azioni sessuali. Bisogna essere in gruppo o almeno in due, quindi gli assassini sono una coppia. Buona parte dei fatti hanno poi a che vedere con quanto accaduto nel cantiere di Mapello.
Si arriverà mai a identificare questi assassini?
No, troppo tardi, il colpevole è ormai troppo lontano dall’Italia.
Dal punto di vista psicologico che tipo di personalità è?
Uno stupratore, un molestatore di tipo classico in condizione di para branco, eccitato cioè dalla presenza di altri insieme a lui.
Ha colpito tutti l’estrema dignità e forza della famiglia di Yara.
Una famiglia forte, dignitosa, lucida. Farebbe bene però al di là di ogni rassegnazione e dolore a pretendere qualche risposta non fosse altro perché le risorse economiche impiegate in queste indagini appartengono alla collettività. La scoperta dei colpevoli non riguarda solo la famiglia, ma riguarda anche un bisogno di verità e di difesa sociale che è di tutti.
Non dimentichiamo poi che se ogni test del dna costa qualche centinaio di euro, e sono stati fatti oltre diecimila esami del dna, questa è una cosa che deve far preoccupare tutti i cittadini.