Con inquietante precisione, il suicidio di Lucio Magri fondatore del quotidiano Il Manifesto, personalità di spicco della vita politica italiana degli ultimi decenni, viene reso noto il giorno del primo anniversario del suicidio del regista Mario Monicelli. Due persone dai tragitti di vita diversi, accomunati dalla scelta di chiudere la propria esistenza con una morte scelta. Violenta, quella di Monicelli, gettatosi da un balcone di ospedale, apparentemente “dolce” come si dice quella di Magri, eseguita in Svizzera dove a certe condizioni è possibile scegliere il suicidio accompagnato. Per Fulvio De Nigris, fondatore della Casa del risveglio dove si assistono malati terminali o in stato vegetativo e che era anche amico personale di Mario Monicelli, non credente, si tratta di libere scelte, compiute in coerenza con la propria esperienza di vita. Esperienze di vita, aggiunge, fuori della normalità comune, dove appare una fragilità, una debolezza finale frutto della mancanza di un contesto affettivo, familiare, che non ha saputo sostenerli in certe condizioni. “Non li considero esempi negativi” ha detto nel corso di un colloquio con IlSussidiairo.net “perché si tratta di persone che non considero neanche persone normali. Gesti come i loro esprimono la sintesi di una esperienza di vita e non sono in contraddizione con la loro vita stessa”.
De Nigris: una solitudine esistenziale che porta a scelte estreme e soprattutto scelte condotte in totale solitudine? Si è detto che la morte di Magri sia stata suscitata dal suo fallimento politico sommato ala perdita della moglie.
La perdita di una persona cara, come nel caso di Lucio Magri, la moglie, influisce sulla sfera personale. Le ferite causate da un impegno politico o pubblico si curano, si superano. La famiglia aiuta proprio a lenire queste ferite. Quando invece viene a mancare la famiglia, ecco la molla scatenante. Quando vengono a mancare gli affetti è il nostro essere che viene posto in difficoltà. Non a caso neanche gli amici che erano a conoscenza delle sue volontà sono riusciti a dissuaderlo. Il suo era evidentemente un malessere di vivere troppo forte.
Mi sembra di capire che lei dica che come esseri umani dipendiamo da un altro e che la mancanza di questo altro debilità la nostra stessa struttura portandoci a questi gesti estremi.
Il nostro essere dipende dalle relazioni che abbiamo. Si fa fatica a ricostruire queste relazioni quando esse vengono a mancare. Lo vedo nelle persone che rimangono in stato vegetativo e soprattutto per le loro famiglie: ricostruire delle relazioni con l’ambiente che ci circonda diventa molto, molto difficile.
Pensando alla vostra struttura, è possibile dire che offra un sostegno proprio a quanti lo hanno perduto in ambito familiare?
L’ambito familiare è una “cura” insostituibile che va fatta obbligatoriamente. Ogni lutto, ogni grave trauma ha bisogno di una cura in ambito familiare, quando i rapporti sono molto stretti e le famiglie sono di mutuo aiuto si fa poi fatica a vivere quando viene a mancare un componente della famiglia. Una struttura come la nostra ti può aiutare nel momento cocente, nel momento caldo della perdita, ma dopo quello che viene a mancare è la società. Quando la persona torna a casa e ricomincia il suo lavoro quotidiano è allora che la vita ti presenta il conto.
Ci spieghi meglio questo passaggio.
Quando la relazione con l’altro viene a mancare, la società non ha più gli strumenti per starti vicino. Se pensiamo anche ai suicidi dei giovani, degli adolescenti per cose anche banali come un brutto voto, in realtà è un malessere che si vive da adolescenti ma anche da adulti e anche nel periodo della senilità dove ci sono più debolezze e dove mancano degli strumenti e dei modi per scaricare un malessere che è personale, individuale.
In che senso la società non sostiene l’individuo?
La sfera sociale non è in grado di fare granché, non bastano neanche gli amici, ci vorrebbe un sostegno psicologico o qualcosa di più, ma anche così il problema del trauma, del coma, della morte di una persona cara rimane sempre: è la sfida della vita.
Un lavoro quotidiano di presa di coscienza della realtà?
La vita ti sfida continuamente, con delle prove e la prova stessa dell’esistenza è quella più difficile. E’ possibile che siamo impreparati ma anche sconfitti in partenza: quando muore una persona molto cara la sconfitta è tropo cocente, quando ti muore un figlio come successo a me la sconfitta è evidente e destabilizzante. E’ chiaro che la vita continua, che il figlio rimane dentro di te, ma poi c’è sempre quel momento alla sera quando spegni la luce che ti manca la fisicità di quella persona, accade sempre. Ed è una cosa che fa parte della vita che nessuno di noi è in grado di accettare fino in fondo.
Secondo lei incide in questo anche la mancanza di un tessuto religioso che una volta nella nostra società era più evidente, più concreto ed accettato e oggi rifiutato?
Sicuramente ho visto che quando c’è la fede c’è una marcia in più. Ma c’è un crollo di esseri comunitari, di comunità, di essere partecipi che oggi vale per tutti, atei e non. Una solidarietà affettiva che si è andata perdendo, e le nuove tecnologie come Internet non facilita questo.
Anzi, sembra che facciano aumentare le solitudini.
Internet facilita le relazioni, ma non il contatto con le persone. La solitudine può essere molto forte nel moltiplicarsi di relazioni come succede con i social network. Corrisponde ad essi una solitudine fisica di non poter contare sui propri cari, in coloro che ti sono vicini, in quell’ambito familiare che diventa un recinto di appartenenza se vogliamo un po’ tribale, un contatto fisico che esiste nel nucleo familiare. Il contatto con gli amici è qualcosa che si va perdendo; la collettività, il fatto di aver luoghi di aggregazione come la parrocchia e le università che permettevano relazioni si stanno perdendo. Oggi l’agorà è il centro commerciale dove si va a vedere persone ma non c’è la relazione che altri elementi in passato più che oggi avevano.
Non pensa che casi come quello di Lucio Magri o Mario Comencini possano diventare esempi che influenzeranno le persone?
Non credo. Se una persona ha una forte stabilità affettiva dettata da una positività con cui è educata, non viene influenzata. Penso ad esempio a tutta la violenza che oggi fuoriesce da certi programmi televisivi. Ho due figlie che devo sollecitare a non guardare certi programmi, ma esse non sono influenzate anche quando li guardano perché hanno una stabilità emotiva dettata dalla famiglia e dalla educazione in cui vivono. Con la consapevolezza che sì, siamo tutti fragili, questo è da tenere sempre presente.
(Paolo Vites)