Viaggio programmato, un piano stabilito nei minimi particolari, qualche tentennamento, una resistenza infine domata e Lucio Magri è partito per la Svizzera, una di quelle cliniche asettiche e confortevoli, dove un medico “amico” gli ha infilato un ago in vena e ha chiuso la sua vita triste e sola. Suicidio assistito, in certi paesi si può. In certi paesi “civili”, dicono, che lasciano all’uomo questa suprema “libertà”. Qualcuno vorrebbe anche da noi, dove rigurgiti sedimentati di cultura cattolica ci impediscono i diritti della persona, tra cui quello di morire. Del suicidio di Lucio Magri ne parlano solo Repubblica (e il suo Manifesto) con malinconici coccodrilli affiancati dalla cronaca commossa di una scelta ineluttabile, coerente, stimabile.



Qualsiasi giudizio dubbioso è stroncato dall’incipit del pezzo con quella citazione di Pavese, “Non fate troppi pettegolezzi”, omettendo di ricordare che era il lascito di un uomo disperato, incompreso, nella stanza ombrosa di un alberghetto torinese. Repubblica dava voce al segreto custodito gelosamente dagli amici più stretti, riuniti a casa sua, davanti a un Martini, in attesa trepida della notizia sull’ora fatale. Gli amici della gioventù, di tante battaglie, perché Lucio Magri era un combattente, dicono. Un uomo inquieto, un ribelle, duro e puro; partito democristiano per approdare ben presto al Partito comunista e diventarne, da intellettuale appassionato, una delle teste pensanti. Mai organiche però, tanto che il suo nome è tra gli eretici fondatori del Manifesto, il 23 giugno 69: lotta agli albori del compromesso storico, appoggio della rivoluzione culturale cinese, ma anche il sostegno solitario alla primavera di Praga, che sancì la radiazione dal Pci.



Magri e i suoi lo scavalcarono a sinistra, ne seguirono impavidi l’ideologia, traviata secondo loro dalle strategie, dalle tattiche imposte dalla realpolitik dei vari direttori. Nasce il Partito di unità proletaria, un ricordo lontano, che suscita tenerezza. Dov’è finito? Coi suoi pugni chiusi, le sue grida? Di nuovo nel Pci, per poi liquefarsi con esso dopo la svolta della Bolognina. Fine di un sogno, per chi ci aveva creduto o finto di crederci. Tanto da paragonare la schiera politica cui aveva scelto di aderire al Sarto di Ulm, il protagonista del romanzo di Brecht che non sa volare, ma caparbiamente ci prova, finché si sfracella al suolo. È il titolo del suo ultimo libro, uscito un paio di anni fa. Quando si dice la fine delle ideologie.



Eppure Magri era un combattente: cosa gli ha impedito di usare la ragione, metterla a servizio della sua passione per l’uomo, continuando a vivere? La solitudine, la morte della moglie amata, la depressione. Non basta la politica, non bastano neppure gli amici, se non sanno farti compagnia nel dolore, dare un senso al distacco dalle persone care, cercare con te un significato per vivere. Stancano, le discussioni politiche di vecchi inariditi, con lo sguardo al passato, il rimpianto perché la realtà è diversa da come si era progettato. Non bastano le traduzioni dei libri, i riconoscimenti, gli inviti a qualche convegno di reduci.

La prima politica è vivere, questa è la buona battaglia, questo il coraggio. Aveva una figlia, Magri, una nipotina, amatissima. Non abbastanza, se il suo faccino non gli ha impedito quel volo oltreconfine. Oppure è stata la malattia, la follia: qualcuno allora si domandi, nel dolore della sua scomparsa, se non gli si poteva stare vicino, fermare in quella scorza di combattente quel cedimento, quella viltà. Morti così non chiudono il discorso, aprono una voragine di domande: non basta un Martini a placarne il tormento.