Scusate se non mi indigno. Una ragazza, l’altra notte, a Monza, ha incrociato una donna, sconosciuta, e le ha messo in mano un fagottino. C’era il suo bambino, lì dentro. Si è scusata, dicendo che non poteva tenerlo, ed è volata via. La donna, confusa, ha portato il piccolo in un istituto religioso. E dove, se no. E le suore l’hanno prontamente fatto ricoverare in un reparto di neonatologia, dove il bimbo, in perfetto stato di salute, attenderà che la più presto una mamma e un papà chiedano di guardarlo negli occhi e prenderlo in braccio.



Non mi indigno, anzi, mi commuovo per quella giovane mamma, quasi certamente italiana, che ha avuto il coraggio di un simile gesto. Beata incoscienza, dirà qualcuno, ma pensarci prima? Non tutto si può sempre programmare e determinare “prima”. Alle volte è un nostro errore a farcelo capire. Spero che a generare il suo bambino sia stato un atto d’amore, sconsiderato, imprudente, ma non improvvido. Magari pensava che il suo uomo si sarebbe occupato di entrambi, e ha scoperto costernata che così non è. Magari ha paura che la famiglia si scandalizzi, o che qualcuno le porti via un lavoro precario. In genere, chi bada solo al proprio interesse, e un figlio non lo vuol tenere perché è un problema, un impiccio, un sacrificio, davvero ci pensa “prima”. Ma non prima di fare all’amore. Ci pensa ricorrendo all’aborto, chirurgico o, come usa adesso, chimico, illudendosi che sia più comodo, indolore, più digeribile per la coscienza.



Invece, quella ragazza, da un lato debole, certo sola, insicura, di coraggio ne ha avuto. Ha messo alla luce il suo bambino, si è affidata a una donna, come lei. Ha sperato, rinunciando a lui, di offrirgli un futuro migliore. Che privazione, che strazio, anche se si trattasse di una sventatella senza cognizione e giudizio. Perché quando un figlio l’hai custodito nel tuo ventre, l’hai fatto uscire urlando dalle tue viscere, separarsene è una ferita, lancinante.

Ci vuole il coraggio della disperazione, o la coscienza di un’impotenza, la generosità suprema, quella che solo una madre può avere: eccolo, è del mondo, l’ho fatto nascere, custoditelo voi. La mamma di Mosè ha fatto così. La madre dei fondatori di Roma ha fatto così. La storia, sacra e non, racconta con tenerezza e tremore di donne che hanno osato questo gesto, contribuendo così a disegnare per i loro figli un destino buono. A un certo punto nella storia ha fatto capolino il cristianesimo, e con esso hanno avuto una ragione, e uno slancio, la pietà e la carità. Era prassi accogliere nelle chiese, nei conventi, i bimbi voluti, ma abbandonati. Nessuno si preoccupava dei motivi. Nessuno andava a cercare le madri, se non per aiutarle, per dire loro possiamo prenderci cura di te e del tuo bambino. I trovatelli venivano nutriti e cresciuti, venivano istruiti e veniva dato loro un lavoro, una dote. Le ruote degli esposti stanno ancora a dimostrare che la clausura sapeva aprirsi, quando era il caso.



 Oggi si è tentato di imitare la pratica, con le “culle  rosa” fuori da qualche ospedale. Inesorabilmente vuote, perché chi mi assicura che mentre lascio il mio bambino qualche telecamera non riveli il mio nome, qualche malintenzionato non mi segua e lo rapisca per sé. Come lasciare una creatura in una cella metallica, aspettando che una luce lampeggiante avvisi il reparto d’urgenza che è arrivato un fagotto? Ci vogliono due braccia, che lo abbraccino subito. Ci vuole una donnaa cui batta il cuore, e che corra ansiosa alla prima casa di suore. Stupite, incantate, premurose intorno a Gesù Bambino, incarnato per loro, quest’anno ancora di più.