E’ stato uno dei fondatori della Nouvelle Cuisine in Italia, che ha rinnovato radicalmente la cultura del cibo nel nostro Paese, ma all’improvviso ha deciso di abbandonarla per ritornare alle radici dell’enogastronomia italiana. E anche questo Natale ai suoi clienti nel ristorante Le Casacce, sul crinale della Val d’Orcia a 16 chilometri da Montalcino, Enrico Casini come ormai da otto anni servirà tortellini fatti in casa, sella d’agnello, carne in piadina marinata, capriolo, che ben si adatta alla montagna maremmana, maiale nero, cinta senese e macchiaiola maremmana. Lo racconta lui stesso in un’intervista a Ilsussidiario.net, nel corso della quale spiega che cosa lo ha portato a dare una svolta inaspettata alla sua carriera di chef.
Casini, a che cosa si ispira nella scelta dei piatti da servire ai suoi clienti sotto Natale?
Alla tradizione ovviamente. Ho una famiglia bolognese, quindi per me i tortellini sono assolutamente fondamentali. E nello stesso tempo mi ispiro anche alle radici locali maremmane, cioè del luogo dove sorge il mio ristorante.
Da un punto di vista enogastronomico, quale opportunità rappresenta il Natale?
Io ne approfitterò per preparare dei piatti tipici come la polenta con le castagne e la zuppa di lenticchie. La cultura enogastronomica ormai non si può limitare a un luogo particolare, come l’area maremmana. Io ragiono soprattutto a livello italiano, e non solo con i prodotti toscani.
Quali sono le caratteristiche che rendono unico il suo ristorante?
Innanzitutto la ricerca dei prodotti, che per me è fondamentale e che nel luogo in cui mi trovo è praticabile perché, dalle carni ai formaggi e dai salumi alle verdure, posso curare tutto nei dettagli dall’orto o dalla stalla fino alla tavola del cliente. Sulle tradizioni culturali italiane poi innesto la mia fantasia, il profumo che mi è piaciuto in quel momento, il prodotto che ho trovato nell’orto, e quindi ne ricavo delle ricette che hanno radici italiane ma che sono sempre qualcosa di nuovo.
Quali sono state le sue esperienze prima di aprire il ristorante Le Casacce?
Innanzitutto ho girato il mondo, sono stato a Londra, in Giappone, in America, in Belgio, e in molti mi hanno chiamato per insegnare cucina, proprio grazie al fatto che avevo avuto modo di vedere altre culture.
Per lei qual è stato il momento che ha segnato la “svolta”?
Dopo avere lavorato per 15 anni come chef a Roma, 20 anni fa ho deciso di trasferirmi in Toscana aprendo un ristorante all’Argentario. Gli anni vissuti a Roma erano però in un momento completamente diverso, ci trovavamo alla fine degli anni ’70, cioè nel periodo della nascita della Nouvelle Cuisine, nonché delle guide de L’Espresso cui ho partecipato in prima persona. C’era tutto un altro fervore, e anche l’interesse era differente. Oggi tutti fanno gli chef, in quel periodo era una completa novità. E quindi chi se ne occupava aveva tutto un altro entusiasmo.
Come ricorda gli anni della Nouvelle Cuisine?
A renderli unici è stato soprattutto il fatto di presentare piatti nuovi in maniera nuova, con un carattere nuovo, con un afflato nuovo, con una personalità nuova. Insomma eravamo innanzitutto noi, in quanto cuochi, a essere diversi da prima.
In che modo questa novità si rifletteva sui vostri piatti?
Nell’uso dei prodotti e nel loro abbinamento. Prima di allora, Roma era soltanto pollo alla diavola e pasta alla carbonara. Noi abbiamo iniziato a presentare ai romani le tecniche degli chef giapponesi: all’epoca era una novità assoluta. Perché a un certo punto ha deciso di rompere con la Nouvelle Cuisine L’ho abbandonata nel 1985 con un’intervista alla rivista Vogue dai contenuti molto precisi. E lo ho fatto perché mi sono reso conto che con la Nouvelle Cuisine si perdevano le radici dell’enogastronomia. Ho quindi preferito recuperare le tradizioni culturali italiane, e sottolineo il fatto che per me la dimensione nazionale dell’enogastronomia è molto importante.
In che modo è riuscito a recuperare questa tradizione?
Innanzitutto viaggiando, in quanto essendo uno dei fondatori della guida enogastronomica de L’Espresso, riuscivo a vedere in media 200-300 cucine all’anno.
Ma come si tramandano i segreti della cultura enogastronomica?
Il fascino della tradizione italiana è proprio il fatto che ogni nonna ha la sua ricetta. In Toscana per esempio ogni Comune ha la sua ribollita, tanto è vero che io adesso non oso più presentare i miei piatti come ribollite, ma li chiamo semplicemente “zuppe di fagioli e cavolo nero”. E così evito il confronto con le nonne dei clienti presenti in sala.
Sotto Natale di solito il numero di persone che vanno al ristorante aumenta e di quanto?
Una volta aumentava nettamente, adesso non più. Più che il giorno di Natale, c’è più movimento nei giorni della vigilia. Ma di certo non come 15-20 anni fa.
Dal punto di vista delle abitudini, che cosa è cambiato?
Questa tendenza è legata innanzitutto a un fattore di tipo economico. Quindici, venti anni fa il sabato sera se un ristorante aveva meno di 80 persone che avevano prenotato, sembrava una giornata andata male. Oggi invece nessuno arriva più a fare quei numeri.
Ma è solo un problema economico, o c’è stato anche un cambiamento sociale e di costume?
Il cambiamento è anche sociale, in quanto è venuto meno il fatto di vedere il ristorante come un momento “sociale”. Oltre al ristorante per esempio gestisco anche 20-30 appartamenti: la gente viene anche solo per qualche giorno, e vedo che arrivano sempre da soli o un piccoli gruppi, è difficile che si creino delle situazioni di aggregazione.
(Pietro Vernizzi)