E’ finito davanti al giudice l’amore “proibito” tra due ragazzi di 23 e 19 anni, entrambi della provincia di Venezia. Una storia come tante altri, se non fosse che lei è musulmana del Kosovo e lui cattolico e italiano. I genitori della ragazza, quando hanno saputo della relazione, hanno tentato di stroncarla sul nascere con minacce di morte, intimidazioni e violenze verbali. Al punto che sono dovuti intervenire i carabinieri, i quali hanno informato la Procura di Venezia. E il pm Massimo Michelozzi ha deciso di disporre per padre, madre e fratelli di lei il divieto di avvicinare la stessa ragazza, il suo fidanzato italiano e di recarsi nel Paese dei familiari del ragazzo. Ilsussidiario.net ha chiesto a Salvatore Abbruzzese, professore di Sociologia della Religione all’Università di Trento, di commentare questo fatto di cronaca.
Professor Abbruzzese, che cosa può scattare nella mente di un padre che arriva a minacciare la figlia di morte?
Quanto avvenuto a Venezia è l’esempio di ciò che avviene quando si sposta una persona sradicandola dal luogo in cui ha i suoi punti di riferimento e facendola entrare in un contesto completamente diverso e per molti versi antitetico. Gli immigrati che arrivano in Italia non si rendono conto del fatto che i figli subiranno comunque il fascino della nuova cultura nella quale si trovano a vivere. Sembra che le persone non vogliano assolutamente rendersi conto di come gli universi culturali siano in qualche maniera esterni alle loro valutazioni e abbiano la loro influenza. E’ un problema classico delle famiglie degli immigrati venire dal Kosovo in Italia illudendosi che si possa vivere nel nostro Paese con i propri valori d’origine, senza che i figli abbiano dei problemi e confidando semplicemente sulla propria capacità di tenere salda la barra. Lo avevano anche le famiglie degli immigrati italiani quando andavano in Francia, in Svizzera o negli Usa. C’era esattamente questo stesso problema. L’errore sta quindi nel sottovalutare l’influenza delle culture, specialmente nei confronti dei più giovani che sono personalità aperte, che si stanno strutturando e quindi si guardano intorno, cercando dei modelli che non sempre sono positivi, ma che inevitabilmente finiscono per influenzarli. Qualsiasi famiglia che sceglie di emigrare in un altro Paese dovrebbe sapere queste cose.
In questo caso però oltre a una differenza di nazionalità, ce n’è anche una religiosa. Fino a che punto può diventare una differenza ancora più radicale?
Sicuramente la religione diventa una differenza radicale quando è usata strumentalmente come un’arma di differenziazione per motivi identitari. Le religioni in realtà convivono da moltissimi secoli e sono passate attraverso momenti di tensione, ma anche attraverso secoli di convivenza pacifica. Il problema è l’uso distorto delle religioni, quando cioè queste non sono più praticate come messaggi di salvezza, ma come strumenti di definizione della propria esistenza sociale e del proprio profilo culturale. E’ come se io, invece di vivere il mio cattolicesimo per affermare che Gesù si è incarnato, lo utilizzassi per difendere la mia tradizione nazionale.
Per quale motivo le società finiscono per utilizzare la religione in modo strumentale?
Fino a quando io non mi rendo conto del valore dell’altro, ma in qualche modo lo cancello e lo determino a priori, la conseguenza è sempre e comunque lo scontro. E questo è un problema reciproco, sia da parte dei cattolici sia da parte dei musulmani. Fino a quando un musulmano è convinto che l’altro sia portatore soltanto di valori negativi, in quanto professa un’altra religione, qualsiasi soluzione pacifica è assolutamente improponibile: con quel sistema, con quel metro di valutazione della realtà, senza introdurre elementi di mediazione, mi sembra chiaro che nei fatti non c’è nessuna possibilità di apertura. L’Islam vieta il matrimonio tra una donna musulmana e un uomo cristiano.
Questo può rappresentare un ostacolo insuperabile all’integrazione?
Ovviamente rappresenta un ostacolo non di poco conto. Occorre vedere però come di fatto si sono comportate nei confronti di questo precetto islamico le comunità immigrate negli Stati Uniti. Qui infatti l’universo musulmano è passato attraverso trasformazioni veramente significative. Alcuni dei musulmani americani dell’ultima generazione per esempio non prendono più dei nomi arabi, bensì inglesi. Negli Stati Uniti cioè ha avuto successo una convivenza che ha profondamente trasformato la stessa natura dell’Islam. E non è un caso se il dialogo con i musulmani avviene molto di più negli Usa che non in Europa. Quindi in America abbiamo avuto una religione che è andata incontro a una notevole apertura, con persone che pur restando musulmane non discreditano affatto chi ha convinzioni diverse dalle loro.
Quindi la capacità di integrarsi non dipende dalla religione, ma dal modo in cui la si vive?
Sì, ne sono profondamente convinto. Le religioni sono sistemi apparentemente chiusi su un piano teologico, nel senso che un principio teologico è di fatto dato una volta per tutte. Ma le possibilità applicative, le evoluzioni e le trasformazioni sono assolutamente molto più frequenti di quanto non si creda. Un conto è il “dogma teologico”, un altro le sue applicazioni e i suoi sviluppi sociali.
Ma di fatto come si può superare una norma religiosa che impone una chiusura agli altri?
Nel pensiero islamico sono presenti degli elementi di riconoscimento dell’altro, ma in questo momento non sono fatti valere. Ciò su cui si insiste, al contrario, è l’istanza di separazione e di condanna. Il problema che mi preoccupa di più è il fatto che ad andarci di mezzo siano persone concrete, ragazzi e soprattutto ragazze. Dopo essere state portate in Italia come dei “pacchi”, giungono qui e trovano un mondo diverso, trovandosi a vivere un dramma infinito.
E’ vero che gli immigrati sono gli strati di solito meno colti dei popoli da cui provengono?
Su questo starei attento, perché noi in realtà conosciamo molto spesso l’universo musulmano attraverso fatti di cronaca come quello di Venezia. Finiamo quindi per leggerlo attraverso dei fenomeni di scontri o di devianze perché sono quelli che fanno più rumore. Mentre non sappiamo nulla degli immigrati che si integrano, perché non fanno notizia e quindi nei loro confronti ci vorrebbe uno strumento di analisi completamente diverso. Quello che noi finiamo per conoscere è l’Islam peggiore, e così leggiamo dai giornali dell’immigrato che vuole accoltellare la figlia, e non sappiamo nulla dei 1.500 che cercano dei percorsi di convivenza e ricomposizione. E’ un mondo che esiste ma non emerge, in parte perché queste persone non vogliono apparire e in parte perché noi viviamo di ciò che ci arriva dai mezzi di comunicazione di massa.
(Pietro Vernizzi)