Il tassista che lavora a Milano e mi ha dato un passaggio in via Meravigli, non aveva mai visto un anno così: “Se non lavoro io, vuol dire che non lavora anche il negozio dove la gente va a fare la spesa; perché se io non guadagno, certamente mi comprerò un paio di scarpe in meno”. In due parole quel signore che aveva dentro la nostalgia dell’Appennino Tosco-Emiliano mi ha spiegato cos’è la recessione, ossia l’economia che si accartoccia su se stessa. La suggestione di questo fine anno è dunque quella della paura e dello spaventarsi a vicenda, come se tutto fosse più grande di noi. Che ci possiamo fare? Già, è come se avessimo perso gli anticorpi, inghiottiti da anni di abbondanza senza senso, come se la stella del mattino che è ancora alta nel cielo al levar del sole, quando ci si sveglia nel buio delle sei, non ci dicesse più nulla.



Eppure c’è, presenza buona, a dirci che un nuovo giorno non può esserci senza di me e senza di te. Io e te, moglie e marito, fratello e sorella, collega o socio,  microcosmi di impresa, qualunque essa sia. È germe di una risposta. Tre ragazzi di Gavi, ieri sera, m’hanno recapitato a casa uno scatolone con verdura appena raccolta nei loro campi a ridosso dei vigneti di uva cortese. E questa mattina Silvana mi ha detto: “Abbiamo assaggiato un finocchio buonissimo, che aveva tutta la fragranza della natura”. Ma quanti finocchi avremo comprato e mangiato in un anno? Eppure questo lo si ricorda, come qualcosa che irrompe nei tuoi pensieri e ti dice che c’è.



L’altro giorno l’amico Giorgio ci ha fatto una confidenza: suo nonno che ne ha viste di tutti i colori, non lo ha mai visto lamentarsi. E quando ha ritrovato in fondo a un cassetto il suo testamento spirituale, ha scritto che nella vita è stato quasi sempre lieto. E ha usato proprio questa parola, associandola alla fede. Allora ho pensato anch’io a mio nonna, che nacque nel 1900. Vide due guerre e i nazisti che le sottraevano il figlio, dovette emigrare in Argentina e patì la morte di un marito giovane, di professione macellaio, di cui io porto il nome. Ma anche lei non si è mai lamentata. E il giorno prima di morire – ricordo – sorrideva, prima di spegnersi come una candela. Faceva la vignaiola, allevava conigli e galline e aveva una coscienza. Io so che tutte queste persone, mia nonna, il nonno di Giorgio, i nonni di te che mi leggi, allo scadere di un anno andavano in chiesa a cantare il Te Deum. E l’anno ripartiva da lì, mica dalla paura.



Il mio amico Pier, direttore di giornale, ha scritto un pezzo bellissimo sul Te Deum, che è il più bel regalo di Natale che ho ricevuto quest’anno, pubblicato su Tempi di questa settimana: “Te Deum laudamus. Quando sentii cantare questo inno, per la prima volta, nella piccola chiesa di campagna che frequentavo con i miei genitori, non sapevo che cosa volessero dire quelle parole austere e impettite, pronunciate in una lingua a me sconosciuta. Ma sentivo che quelle note e quelle parole, mi trascinavano verso l’alto… Il Te Deum, posso sbagliarmi, ma io lo sentivo così, inviava le note verso il cielo. E queste note, incuranti della legge della gravità alla quale, che io sappia, anche la musica dovrebbe obbedire, se ne andavano dirette verso il cielo per non tornare mai più in terra. Era un coro di sola andata, senza il ritorno. Perché era un coro di ringraziamento a Dio. Te Deum laudamus, appunto.

E mai come alla fine dell’anno si sente il bisogno di un Te Deum. Se non altro per ringraziare di essere ancora al mondo mentre un altro buon lotto di amici e conoscenti ci hanno lasciato per non farsi più vedere… Sono cronicamente curioso, mi aggrappo ai dettagli significativi, specie a quelli che mi danno gioia, emozione. Per esempio quando, in piena notte, torno a casa, dalle parti del Carrobbio, a Milano, mentre sto per chiudere la porta del mio appartamento, non posso che dare un’occhiata alla cupolotta della Basilica di San Lorenzo, che sbuca, resa immacolata e quasi immateriale da un’intelligente illuminazione, dai tetti immersi nel buio delle case un tempo popolari, di ringhiera. È una cuspide ottimista, bombata, che si conclude in una freccia nel cielo che, quando torno a casa, sembra voler infilzare la luna, forse solo per farle solletico, in una congiunzione affascinante, di straordinaria complicità. Sembra dirmi: “Vai pure a dormire. Ti vedo spremuto. Io sto qui a vegliare, non solo su di te, ma su tutta Milano. Anche sui giovani scalmanati pieni di birra e privi di riferimenti che vedo sul mio sagrato”.

E quando parto prima dell’alba per prendere un aereo, abbraccerei il jumbo n.ro 15, guidato da un tramviere che prende pochi soldi ma, fedele al suo compito, non ha mancato il suo appuntamento con il lavoro. Il jumbo tram è lunghissimo come sempre. Ma, a quell’ora, è anche stranamente vuoto mentre la città dorme, sia pure ancora per poco. Esso scivola leggero, con le facce delle donne delle pulizie (anche loro, soldatine del dovere) che mi passano davanti come se fossero in un film, pensando, forse, agli affetti lontani e ai chilometri di scale che dovranno pulire.

 

E che dire della donna bosniaca delle pulizie del condominio, ormai più italiana di me, che mi chiede se le tengo da parte i tappi di plastica delle bottiglie di acqua minerale perché le hanno detto che, venduti, servono per attrezzare un orfanotrofio in Bosnia, la terra da cui viene e che tiene nel cuore.”

Il pezzo è molto più ampio e chiedo scusa a Pierluigi Magnaschi se gliel’ho “periscopizzato” (il periscopio è una rubrica di Italia Oggi dove lui mette alcune frasi che lo hanno colpito, e magari, come ha fatto con un mio scritto in questi giorni, lo pubblica a puntate), però ha colpito il mio Dna, il mio sogno, il ceppo su cui sono stato educato.

Oggi non ho parlato di ricette, di vini, di cose buone. Ma ho parlato di quanto possa essere vero un Bel Giorno, dove a un tratto ricominci a riconoscere: dalla stella del mattino a un finocchio croccante. Riconoscere che tutto esiste per rispondere a una sete che abbiamo dentro fin da bambini. Che è quella della felicità. Bisogna solo mettere a posto qualcosa, perché gli occhi sono ancora appannati. Ma in quel bicchiere di vino e in quel piatto che qualcuno ha pensato per te, in questi giorni, se guardi bene, risplende la medesima luce della stella del mattino. Auguri amici!

P.s. La vignetta di Guido Clericetti è quella di gennaio 2012, che apre il mese sul mio libro Adesso e sopra c’è una frase di Madre Teresa di Calcutta che dice: “Dietro ogni traguardo c’è una nuova partenza. Dietro ogni risultato c’è un’altra sfida. Finché sei vivo, sentiti vivo. Vai avanti, anche quando tutti si aspettano che lasci perdere.”

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