Nella seconda A del liceo Righi di Bologna, la professoressa di Lettere Matilde Maresca ha lanciato la sfida agli alunni: resistere per sette giorni senza le nuove tecnologie, senza computer, cellulare, chat o Facebook. I ragazzi hanno accettato di buon grado, e dopo una settimana l’esperimento ha dato i suoi frutti: tanti ragazzi hanno infatti riscoperto la lettura di un buon libro, la radio, il semplice telefono di casa e relazioni sociali face to face, non mediate da sms e post su social network. La prova è così riuscita al punto che i ragazzi hanno deciso di continuare anche dopo la fine della pausa natalizia, e spegneranno per un giorno a settimana a rotazione i vari cellulari, videogame e computer per 24 ore. Certo non rinunceranno definitivamente a messaggini, mail e chat ma, come spiega anche la stessa insegnante, lo scopo non era questo ma «proporre un uso più consapevole delle tecnologie. Ma nella relazione educativa accade ciò che non prevedi. Loro mi hanno sorpreso». Anche il preside del liceo Righi, Domenico Altamura, ha chiarito che l’obiettivo era quello di «far scoprire altri registri di comunicazione e forme di libertà, basate sulla fiducia, tra genitori e figli. E recuperare quell´affettività che nelle centinaia di comunicazioni in Facebook è perduta». IlSussidiario.net commenta questa interessante iniziativa con Susanna Mantovani, pedagogista e prorettore dell’Università di Milano Bicocca: «Credo che si tratti di un’iniziativa assolutamente positiva, soprattutto se i ragazzi si sono detti d’accordo senza alcuna imposizione. L’educazione è sempre una questione di equilibrio e di autocontrollo, e credo che oggi i ragazzi non abbiano questo tipo di “allenamento”, se non nella musica o nello sport. Ci può essere quindi un eccesso nell’uso di qualcosa apparentemente molto accattivante, ma l’importante è trovare un modo d’uso equilibrato. L’unica cosa di questa iniziativa che mi lascia perplessa è l’aver messo sullo stesso piano tutte le nuove tecnologie: da un lato capisco perfettamente gli intenti, ma dall’altro credo che computer, cellulari e videogame siano molto diversi tra loro, per cui andrebbero trattati in modo differente. In linea di massima mi sembra comunque molto positivo rendersi innanzitutto conto di essere condizionati da una qualche tecnologia, ma successivamente sarebbe meglio distinguerle.
Come dicevo, è molto importante anche il fatto che questo esperimento non sia stato imposto perché, come in tutte le disintossicazioni, il dipendente deve essere consenziente, anche se qui naturalmente non stiamo parlando di questioni patologiche. Riguardo agli obiettivi espressi dall’insegnante e dal preside, mi trovo d’accordo senza dubbio su questo “digiuno” che porta a rendersi conto di essere un po’ dipendenti di queste tecnologie e ad imparare a controllarsi, però è importante che diventi una cosa autonoma, una specie di auto esercizio, liberandolo da ogni moralismo e nostalgia per i bei tempi andati».
Per Susanna Mantovani la cosiddetta “net generation” «non è facilissima da definire, anche perché si sta muovendo e cambiando così velocemente che risulta difficile stare dietro a ogni aspetto. Ci sono tante “net generation”, formate da coloro che hanno iniziato da piccoli e da quelli che invece hanno cominciato da poco, ma una prima caratteristica che ho notato e a cui in pochi fanno caso è la grande scelta che avviene, giusta o sbagliata che sia, rispetto alle fonti di informazione e di contatto, e la grande preoccupazione di adulti e insegnanti è che i ragazzi non abbiano un controllo sulle varie fonti a cui attingono: devo però ammettere che oggi le fonti sono così tante che non si riesce davvero a capire quali siano le reali priorità, in un continuo ammettere e smentire. Ci sono oggettivamente dei rischi, ed è come se questa generazione potesse “assaggiare” qualunque cosa attraverso la Rete. Per questo è importante che un insegnante, un educatore, conoscendo anche la maggiore destrezza dei giovani con questi strumenti, sappia come agire. Ci può essere il problema che la generazione chiamata a dare l’esempio non è “alfabetizzata” come i ragazzi su questi temi, ed è per questo che ci vorrebbero anche molti insegnanti giovani. Senza dubbio un educatore è più credibile agli occhi dei ragazzi se anche lui conosce quello di cui sta parlando, e questo vale per tutti i temi importanti della vita, e non solo le nuove tecnologie. Prima mi chiedeva come si comportano i giovani di questa cosiddetta “net generation”: forse dovremmo semplicemente chiederlo a loro».
(Claudio Perlini)