Diffcile parlarne, difficile ricordare. Yara Gambirasio è scomparsa da due mesi. A Brembate di Sopra non ci sono più le telecamere, dopo la richiesta di silenzio stampa, avanzato dalla famiglia. C’è meno pressione, meno confusione, ma per la gente non è cambiato nulla. È come il primo giorno; la gente passa accanto alla casa di Yara e gli sguardi sono pieni di trepidazione e di angoscia. Nessuno ha voglia di parlarne. La speranza non ha parole. È lo stesso per i volontari, centinaia, che ogni giorno, come quel primo giorno, continuano nelle ricerche.
E non c’è uno di loro che lo faccia con rassegnazione, anche se magari quel pezzo di strada o di campagna, quel cespuglio o quella casa abbandonata, sono la terza o quarta volta che vengono ispezionate. Son tutti padri di famiglia, magari nonni; per loro Yara è figlia e nipote. È una di loro, gli vogliono bene. E così ogni mattina le squadre partono e tornano quando è buio. È lo stesso per carabinieri e polizia. Non è un’indagine con tante altre. Lo ha confessato più di una volta il questore, Vincenzo Ricciardi.
Ci sono investigatori che lavorano giorno e notte. Ci sono da vagliare le piste investigative serie ed anche quelle che si rivelano segnalazioni di mitomani. Non si può tralasciare nulla. Questa è un’inchiesta difficile, non c’è lo straccio di un indizio, non c’è traccia, è come se Yara si fosse volatilizzata nel nulla.
Eppure il questore e gli altri investigatori sono convinti almeno di due cose. Yara non è stata presa da uno sconosciuto. Quella sera del 26 novembre, tutto si è svolto in “un clima di assoluta normalità”. Questo vuol dire che Yara è stata presa da qualcuno che conosceva, altrimenti avrebbe gridato, avrebbe cercato di scappare e qualcuno, in una zona così frequentata, avrebbe sicuramente visto o sentito.
E la seconda cosa di cui gli investigatori sono sicuri è che Yara è viva, nascosta, trattenuta da qualche parte per chissà quale motivo. Yara è viva, una certezza contro il tempo che passa. Due mesi che avrebbero convito chiunque del contrario.
Don Corinno Scotti, il parroco di Brembate confessa sotto voce. «Viviamo questa vicenda come se fosse il primo giorno. In paese c’è ancora un clima intenso di paura, ma anche di speranza, che non si è mai dissolta». La fede di don Corinno è la fede dei semplici, una fede incrollabile. In questi due mesi ha dovuto portare il peso di una comunità smarrita e impaurita. Ha dovuto ogni giorno abbracciare e consolare i genitori di Yara. Anche se confessa che più di una volta è uscito lui stesso consolato dalla forza di quei genitori.
C’era il rischio che la paura, la rabbia avessero il sopravvento. Ma non è stato così. «Questa vicenda – confessa – ha risvegliato invece un forte senso di solidarietà e di passione. È una vicenda triste, che però può servire a riunirci di più come famiglia, a riscoprire i valori che ci tengono uniti e guardarci di nuovo con occhi diversi, anche tra marito e moglie e tra genitori e figli». «I genitori di Yara – dice ancora don Corinno – mi dicono sempre: abbiamo altri tre figli, questa tragedia sta influendo sulla nostra vita, ma non deve diventare motivo di disperazione».
Due mesi senza Yara, un tempo insopportabile eppure un tempo grazie al quale si può capire davvero che non c’è disperazione per chi è capace di guardare verso l’alto. Dentro la chiesa di Brembate, c’è silenzio e pace. Appesa a fianco dell’altare, una grande scritta che è come una preghiera: “Attendere, infinito del verbo amare, anzi amare all’infinito”.
(Massimo Romanò)