Il cammino della ricerca è lungo e irto di difficoltà, soprattutto quando si cerca di violare certi segreti, che più di altri la natura conserva gelosamente, come accade quando entra in gioco la struttura stessa del mistero della vita. Ed è proprio in quei nodi cruciali che il rapporto tra etica e ricerca si fa più stretto e coinvolgente, a tal punto che si può affermare che non è eticamente lecito fare tutto ciò che pure è tecnologicamente possibile fare.



Non c’è dubbio che la ricerca in fatto di cellule staminali sta facendo passi da giganti e ogni giorno di più si arricchisce l’area delle sperimentazioni cliniche in cui il ricorso alle staminali mostra segni concreti di progresso clinico oltre che scientifico. Come dire che il sapere si trasforma concretamente in progetto di cura. Ma le staminali adulte, incluse quelle fetali e quelle cordonali, pur fornendo di giorno in giorno prove efficaci della loro utilità non sembrano avere lo stesso appeal che hanno le staminali embrionali, a cui di fatto non si può ancora attribuire nessun impiego efficace in nessuna patologia, né umana, né animale.



È il paradosso di cellule che pur mostrando almeno tre caratteristiche preziose e insostituibili: l’accessibilità, la manipolabilità e il basso costo, non riescono a conquistarsi adeguatamente il consenso di una stretta cerchia di scienziati perennemente insoddisfatti delle loro prestazioni. Si tratta di ricercatori disposti a spingersi sempre oltre quella soglia in cui etica e ricerca debbono interfacciarsi, per legittimarsi a vicenda, almeno sul piano delle sperimentazioni concrete.

Il problema delle cellule staminali adulte sembrava risolto quando nel 2007, in un laboratorio di Kyoto, il ricercatore giapponese Shinya Yamanaka aveva preso delle cellule adulte ed era riuscito a trasformarle in staminali “bambine”. Queste cellule sono state chiamate Ips (Induced pluripotent stem cells), proprio per sottolineare che lo stato di pluri-potenzialità era stato indotto e non apparteneva alla natura iniziale delle cellule.Lo slogan che ne cantava le dotti era più o meno di questo tenore: staminali sicure, abbondanti e soprattutto ottenute senza bisogno di distruggere embrioni. Il dibattito etico pareva sul punto di dissolversi, perché grazie a questo metodo sembrava possibile ottenere staminali della stessa qualità di quelle embrionali, senza bisogno di distruggere embrioni.



Oggi, però, un gruppo di ricercatori italiani ha scoperto che le staminali ottenute con il metodo Yamanaka non sono del tutto sicure. Il motivo è facilmente comprensibile: durante il processo di riprogrammazione, necessario per trasformare le staminali adulte in staminali embrionali-simili, il Dna delle cellule subisce uno stress. Piccoli frammenti si cancellano, altri vengono alterati, ci sono degli spostamenti di segmenti di Dna da un cromosoma all’altro. Tutto ciò comporta difficoltà crescenti a controllare sia i processi di moltiplicazione cellulare che quelli di differenziazione: i primi procedono a velocità accelerata, senza consentire ai secondi di raggiungere il livello di differenziazione necessario per svolgere la funzione specifica a cui sono destinate. È un fenomeno analogo a quanto accade con le cellule tumorali, veloci nel moltiplicarsi, ma incapaci di raggiungere la loro forma specifica. Infatti, la cellula che si ottiene nel vetrino del laboratorio rischia più facilmente delle altre di diventare tumorale.

D’altra il processo per riprogrammare una cellula adulta e farla tornare “bambina” avviene inserendo nel Dna un gruppo di geni – in genere quattro – attraverso dei virus, che stimolano i processi di moltiplicazione fino a raggiungere velocità vorticose. La cellula appare come impazzita in questo suo replicarsi senza controllo e dopo poco tempo mostra i segni di uno “stress re plicativo” analogo a quello osservato spesso nelle cellule del cancro.

 

C’erano già state varie osservazioni di questo tipo nelle ricerche effettuate in molti laboratori di ricerca avanzata, a tal punto che si suggeriva grande cautela prima di passare dalla sperimentazione di laboratorio alla sperimentazione clinica. Poche settimane fa, è arrivata la conferma di questa fragilità delle staminali riprogrammate: la scoperta è stata pubblicata su Cell death and differentiation ed è frutto di uno studio condotto da una rete di ricercatori, in gran parte milanesi insieme ad alcuni ricercatori svizzeri. Uno studio in cui, accanto a esperti di cellule staminali adulte – le uniche su cui attualmente in Italia è possibile fare ricerca -, c’erano anche esperti di oncologia molecolare, proprio con l’intenzione di verificare questa ipotesi della devianza in senso tumorale delle staminali riprogrammate con il metodo Yamanaka.

 

Le Istituzioni impegnate nella ricerca di fatto erano lo IEO (Istituto oncologico europeo, diretto dal Prof. Veronesi), il San Raffaele, l’Università di Milano e l’Istituto Firc di oncologia molecolare. Quattro realtà altamente qualificate, a cui attualmente si pone un nuovo quesito: è possibile reindirizzare gli studi per ottenere staminali prive di rischi attraverso strade alternative oppure occorre abbandonare definitivamente questa strada? E se la decisione va in questa direzione, ci si dovrà concentrare esclusivamente sulle staminali adulte oppure si potrà riprendere in considerazione l’ipotesi di procurarsi cellule staminali embrionali “utilizzando” però gli embrioni congelati, che giacciono, almeno apparentemente, abbandonati in una serie di banche frigorifero?

 

Yamanaka, pur prendendo atto delle concrete difficoltà che attualmente sussistono e che non sono risolvibili con le nostre conoscenze attuali, non vuole parlare di fallimento, ma solo di un allungamento dei tempi. Si tratta di continuare a studiare e a sperimentare e poiché uno dei frammenti di Dna utilizzati per “ringiovanire” le cellule è un oncogene, ben noto per la sua capacità di promuovere i tumori, e forse occorrerà solo sostituirlo con un frammento di Dna che sia più facilmente controllabile. Un’ipotesi evidentemente che è ancora tutta da sperimentare. Non siamo ancora in grado di “ringiovanire” le cellule a nostro piacimento, ma lo scienziato giapponese non esclude che si possano individuare altre strade alternative, che consentano di ottenere cellule staminali Ips, senza scatenare la proliferazione accelerata che le rende pericolose e clinicamente inutilizzabili.

Di diversa opinione è invece Umberto Veronesi, che vorrebbe archiviare definitivamente gli esperimenti fatti col metodo Yamanaka e passare subito all’utilizzazione degli embrioni congelati, per farne dei donatori di cellule embrionali già pronte per l’uso, praticamente a costo zero. Ne fa addirittura una questione morale, dicendo: “Capisco le ragioni di chi difende la ‘sacralità dell’embrione’ e in nome di essa invoca restrizioni sulla ricerca delle staminali embrionali, ma ripeto: esiste un’opportunità scientifica irrinunciabile, che è rappresentata dagli embrioni sovra-numerari. Penso sia un dovere morale utilizzarli per la ricerca: non si viola nessuna etica e si aiuta la scienza a esplorare le potenzialità delle cellule staminali embrionali, che rappresentano la più grande promessa della medicina del ventunesimo secolo”.

 

Ma anche il ragionamento di Veronesi va a una velocità eccessiva e non tiene adeguatamente conto di alcuni passaggi intermedi che sono essenziali sia sotto il profilo etico che sotto il profilo scientifico. E su questi vale la pena soffermarsi, sia pure rapidamente. Veronesi afferma di capire le ragioni di chi difende la sacralità dell’embrione: ciò può significare solo una cosa, che Veronesi ha finalmente accettato che l’embrione è uno di noi, nell’assoluta consapevolezza che ognuno di noi è stato un embrione e quindi che all’embrione si deve il rispetto che merita ogni vita umana, anche nelle sue fasi iniziali.

 

Veronesi afferma di capire che c’è un nesso logico, e perciò stesso anche morale, tra la sacralità dell’embrione e le restrizioni nella ricerca sulle staminali embrionali. E non potrebbe che essere così, dal momento che la ricerca ha senso solo in quanto servizio all’uomo e non ne avrebbe affatto se si servisse dell’uomo, per scopi diversi da quelli che definiscono il suo bene. Non un bene generico per l’umanità, ma un bene concreto per quella vita umana, per quel soggetto che presto o tardi diventerà adulto, se non gli opporremo troppi ostacoli.

 

Veronesi, però, afferma che esiste un’opportunità scientifica irrinunciabile, rappresentata dagli embrioni sovra-numerari. Sembra quasi che parlando degli embrioni congelati dimentichi del tutto la sacralità dell’embrione, che poche righe prima aveva affermato di ben comprendere e in nome della quale aveva accettato perfino delle restrizioni alla ricerca scientifica. Lo stato di congelamento dell’embrione sembra a questo punto aver congelato anche la valutazione etica del valore della vita e della ricerca, come se avesse sospeso entrambe e le avesse rese irrilevanti. Ma non è così: entrambe continuano a sussistere esattamente come ha affermato lo stesso Veronesi. L’opportunità scientifica irrinunciabile di cui lui parla andrà cercata altrove e non a spese di vite umane congelate, anche perché recentemente abbiamo avuto la prova provata che l’impianto di uno di questi embrioni a distanza di oltre dieci anni ha consentito la nascita di un bambino perfettamente normale.

 

È facile ricordare questo episodio perché si trattava del “gemello” di un bambino nato dieci anni prima. In quell’occasione i genitori decisero che uno solo degli embrioni con la Procreazione medicalmente assistita venisse impiantato, facendo congelare gli altri. A distanza di una decina d’anni è nato quel fratello gemello, da cui lo separavano per l’appunto dieci anni di vita. E questo conferma un altro dato: quegli embrioni non sono affatto abbandonati. Per ognuno di loro ci sono un padre e una madre, che potrebbero reclamarli in qualsiasi momento.

È vero, però, che destano un profondo senso di pena questi embrioni di cui lo stesso Veronesi apprezza la sacralità, ma proprio per questo la Legge 40 decise di mettere uno stop alla loro produzione, obbligando medici e genitori a produrre solo gli embrioni strettamente necessari per l’impianto. Proprio per consentire loro di vivere e di vivere nel miglior modo possibile, con tutta la dignità di persone umane. La legge non obbliga a produrre e a impiantare tre embrioni come se volesse a tutti i costi obbligare le donne a parti plurigemellari, dice solo non più di tre, proprio per evitare che aumenti a dismisura il numero degli embrioni congelati. E in questo modo aumenti anche la tentazione di chi vorrebbe destinarli a tutt’altro uso di quello per cui sono stati creati: diventare bambini per essere figli di chi -sia pure in “provetta”- li ha concepiti.

 

In definitiva, è opportuno e necessario che la ricerca si avvalga del contributo delle staminali adulte, sfruttando tutto l’enorme potenziale che hanno e nello stesso tempo proprio lavorando su di loro valuti in che modo sia possibile implementare lo spettro delle loro applicazioni, dal momento che i riscontri clinici sono più che lusinghieri.

 

Ma la cosa più importante che Veronesi non dice, alimentando una leggenda tanto irreale quanto inaffidabile, è che i rischi delle Ips non appartengono solo alle cellule staminali adulte riprogrammate e sottoposte a stress riproduttivo, è un rischio a cui vanno incontro tutte le cellule staminali embrionali, come hanno confermato infiniti esperimenti. E proprio per questo, oltre alle riserve etiche di cui si è detto, sono inutilizzabili sul piano clinico. È come se la loro gioventù avesse con sé anche tutti i rischi dell’immaturità e dell’imprevedibilità. Funzionano come staminali embrionali solo nello specifico contesto per cui sono state pensate, create e collocate.

 

La loro forza è solo in parte dentro di loro, nel motore intracellulare che le fa crescere e svilupparsi, in gran parte è invece legata alla loro reciproca interazione. Separate le une dalle altre, le cellule staminali sembrano aver perso la bussola, è come se impazzissero e sapessero fare una sola cosa: riprodursi senza specializzarsi. E in questo turbinio riproduttivo vanno facilmente incontro ad alterazioni, che le rendono pericolose, perché rievocano i processi tumorali.

 

La verità è che nessuna cellula embrionale, se non la prima, l’unica, quella che può dare luogo a due gemelli monozigoti, è totipotente; tutte le altre, anche quando sono allo stato di due, quattro, otto cellule, già sono fortemente dipendenti le une dalle altre e si sviluppano correttamente solo in presenza delle altre, che sono nello stesso tempo un fattore di limitazione e di indirizzo. Ecco perché diciamo no non solo all’uso degli embrioni congelati: ricordi Veronesi la sacralità dell’embrione, ma anche l’irragionevolezza dell’uso delle staminali embrionali… Per motivi scientifici, oltre che etici!