Alla Camera ha preso il via la discussione sulle Dichiarazioni anticipate di trattamento (Dat). Colpisce che la legge sia poco conosciuta soprattutto dagli stessi parlamentari, ma ancor di più sorprende che da angolature e convincimenti opposti in molti affermano: meglio nessuna legge che questa legge.

Sorprende perché forse non si comprende che questa legge è quasi obbligata dopo la sentenza definitiva del caso Englaro e dopo il pronunciamento della Corte Costituzionale in merito ai ricorsi, una sentenza che ha creato una strada verso una forma di eutanasia che altri possono agevolmente percorrere. Sorprende perché senza una “regola”, che in qualche modo parta dalle dichiarazioni di volontà del paziente, la stessa legge sarebbe praticamente nulla, perché le sentenze e il pronunciamento della Corte Costituzionale obbligano il legislatore a partire proprio dal rispetto delle dichiarazioni di volontà. Sorprende, infine, perché l’alternativa sarebbe l’anarchia delle sentenze di singoli tribunali. È un dovere fare una legge tenendo conto dei paletti imposti dal caso Eluana, questa è la realtà: tutto il resto è immaginato e idealizzato, ma non corrisponde alla realtà.



Forse è il caso di ripercorrere quanto accaduto negli ultimi tre anni nel nostro Paese, perché una cosa è chiara: nessuno voleva fare una legge su questo tema, ma dopo il caso Englaro è divenuto doveroso. Con il caso di Eluana, si è messa in pratica anche in Italia una forma di eutanasia, si è deciso che la libertà possa significare “libertà di morire”, si è sentenziato che si possa intraprendere un percorso che porti a un verdetto sulla vita e soprattutto su una vita definita imperfetta, attestando per legge o sentenza quale possa essere il livello non più dignitoso per una vita.



Attualmente, in Italia sono circa 3000 le persone in stato vegetativo, sono decine i casi pronti a fare il percorso nei tribunali italiani e sono migliaia le dichiarazioni di volontà depositate da notai, comuni ed enti locali, documenti che qualche associazione è già pronta a portare in tribunale. Con la sentenza Englaro si è creato un precedente secondo il quale le proprie volontà possono essere ricostruite o desunte addirittura dallo “stile di vita”. Il rischio è quello di un’anarchia giudiziaria e non a caso chi parla di eutanasia sta chiedendo a gran voce di non fare questa legge.



Questo testo di legge è chiaramente un argine al ripetersi di casi come quello di Eluana. Ripeto: è un argine, con la consapevolezza che la violenza dell’acqua può prevalere. Ma per questo si fanno gli argini È una legge che dice chiaramente “no” all’eutanasia e “no” all’accanimento terapeutico (art. 1 e art. 7). È una legge che prevede un’alleanza e un rapporto di fiducia tra medico e paziente (art. 2) e in questo vuole intendere chiaramente che nessun soggetto esterno potrà interpretare le volontà del paziente rispetto alle cure, che valuterà insieme al proprio medico.

 

Sulla scia della sentenza, e del precedente Englaro, sono previste delle Dat che contengono alcuni punti fermi (art. 3 e art. 4): la Dichiarazione assume rilievo quando è certa, scritta, firmata, non è quindi più possibile ricostruire o immaginare le dichiarazioni di volontà. Assume rilievo quando viene accertato che il paziente non sia più capace di comprendere, quindi se è certa l’incapacità. Ha validità di 5 anni, e quindi la volontà deve essere espressa e confermata. Deve essere inserita nella cartella clinica. Alimentazione e idratazione non sono oggetto di Dichiarazioni e non possono essere equiparate a terapie mediche, tranne il caso in cui non risultino più efficaci nel fornire fattori nutrizionali.

 

In condizioni di urgenza o quando il soggetto versa in pericolo di vita immediato, la Dichiarazione non si applica (art. 4), il medico applica il principio di inviolabilità della vita umana e della tutela della salute, secondo principi di precauzione, proporzionalità e prudenza (art. 7). Il medico curante ha un ruolo centrale sia nella fase di informazione costante al paziente cosciente, sia in seguito, quando lo stesso si trova nell’incapacità permanete di comprendere e quindi subentra la Dichiarazione di trattamento. In questo caso al paziente subentra il fiduciario da lui nominato (art. 6), che sarà l’unica persona autorizzata a interagire con il medico. In caso di controversia tra medico curante e fiduciario, la questione viene sottoposta a un collegio di medici (art. 7).

L’alternativa è l’anarchia delle sentenze di qualche tribunale che più che “accompagnare alla morte” determina la morte per legge, togliendo acqua e cibo a chi non aveva mai detto di voler morire ed era amorevolmente accudito. Che società è quella che chiama la vita “un inferno” e la morte “una liberazione”? La sospensione dell’alimentazione di Eluana è stata un omicidio, così come è omicidio quello che qualche associazione e qualche deputato dichiarano nella loro volontà di aprire all’eutanasia. La questione è poi aggravata dal fatto che si è voluto impedire l’esercizio della carità, perché c’è chi si stava prendendo cura di Eluana e, come dichiarato pubblicamente, avrebbe continuato gratuitamente a farlo. Una disponibilità che vale anche per tanti altri casi. 

 

La storia del nostro popolo è un’altra. La storia della medicina è progredita quando si è cominciato ad assistere gli “inguaribili”, che prima venivano espulsi dalla comunità degli uomini “sani”, lasciati morire fuori dalle mura della città o eliminati. Chi cominciò a prendersi cura degli inguaribili lo fece per una ragione che era più potente della vita stessa: una passione per il destino dell’altro uomo. La stessa storia degli ospedali nasce da questo. Una storia che adesso fa una brusca inversione.

 

Il caso Eluana, e il dibattito su questa legge, ci mette davanti alla prima evidenza che emerge nella nostra vita: non ci facciamo da soli. Siamo voluti da un Altro. «Persino i capelli del vostro capo sono contati». Rifiutare questa evidenza vuol dire rifiutare la realtà e chi rifiuta la realtà rifiuta di vivere.

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