Il caso dell’allenatore di golf Sikh, cui è stato chiesto di togliersi il turbante per un controllo di sicurezza all’aeroporto di Milano Malpensa ha provocato la dura reazione del governo indiano che ha convocato l’ambasciatore italiano a New Delhi e ha portato all’Onu l’attenzione di un fatto sentito come un’offesa alla religione.



Ma è davvero così? E, soprattutto, quali sono i limiti e il rapporto tra le esigenze di sicurezza e ordine pubblico e l’intangibilità di segni e simboli religiosi?

Ora occorre distinguere tra quei simboli che non ostacolano il controllo personale per motivi di sicurezza, come può essere una catenina con un segno religioso o un tatuaggio simbolico, e quelli che invece possono nascondere oggetti o il volto delle persone. Per questi ultimi le leggi di pubblica sicurezza internazionali e dello Stato italiano prevedono che possano essere rimossi per verificare un eventuale occultamento. Nel caso, poi, del volto nascosto, le vicende, in Italia, sono disciplinate dalla c.d. legge Mancino, che riguarda la copertura attraverso caschi o altre modalità finalizzate all’occultamento dell’identità delle persone, e dal testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, che all’articolo 85 vieta di comparire mascherati in pubblico. In questo senso è determinante la distinzione tra un copricapo, come un turbante o un velo che lasciano scoperto il volto, e, invece, indumenti che provocano il totale nascondimento del viso (come è il caso del Burqa). Quest’ultima situazione non solo non è consentita per quanto riguarda l’identificazione – e la validità di fotografie e le immagini da riportare sulla carta d’identità – ma allarga il problema al rapporto tra espressione religiosa e dignità della persona umana.



Emerge, dunque, una distinzione tra il diritto di manifestare le proprie convinzioni religiose, anche attraverso la decisione di indossare un turbante o un velo, atti totalmente liberi, e la scelta di un nascondimento integrale della fisionomia della persona, che quand’anche dettata da motivi religiosi, può scontrarsi con i valori del rispetto della dignità della donna (e per questo vietata in taluni ordinamenti; non è il caso dell’Italia), nonché con motivazioni sociali e, comunque, con le norme generali di sicurezza richiamate (queste sì vigenti, come detto, anche in Italia).

Nell’ambito, poi, delle situazioni relative ai simboli e agli indumenti, espressione di sentimenti religiosi e non invasivi (dunque generalmente liberi e legittimi), sui quali potranno prevalere soltanto esigenze di sicurezza per l’incolumità di altri esseri umani (anche una banale attività sportiva può implicarne legittimamente la rimozione), soltanto una malintesa concezione di laicità che scivoli verso il laicismo esasperato potrebbe ritenerli come manifestazioni in grado di ferire i sentimenti religiosi di altri soggetti (questo, del resto, è stato il recente tentativo – andato a vuoto grazie alla decisione definitiva della Corte di Strasburgo  – di far rimuovere i crocifissi dalle scuole italiane). 



Ma poiché non era certo questa la motivazione che ha spinto i funzionari dell’aeroporto milanese a chiedere la temporanea rimozione del turbante al Sikh indiano, non è corretto ritenerla un’offesa alla religione, trattandosi di un atto necessario a garantire la sicurezza e la vita umana di altri cittadini, valori che non possono essere disattesi da tradizioni e istanze religiose, di grande significato, ma che se assolutizzati finirebbero per offrire una zona di libera franchigia alla mercé di pericolosi occultamenti. E di questa eventualità, proprio i sentimenti religiosi più autentici e, dunque, intrisi di rispetto per la vita umana del prossimo, devono farsene carico e non rimanere indifferenti.