Al posto dei tradizionali «mamma, pizza e mandolino», la nuova terna «aglio, promiscuità e musica». Sono le qualità che, nei film inglesi degli ultimi 70 anni, caratterizzano l’italiano tipo. Ad affermarlo è un articolo uscito sul Financial Times, dal titolo (in italiano) «Così fan tutte?» e firmato da Tony Barber.
LA «PROFEZIA» DI BOCCA – Il quotidiano della City cita uno scritto di Giorgio Bocca uscito nel 1962: «Ciò che i papi-monarchi dell’età dei Medici, l’imperatore messia di Dante, il principe di Machiavelli, la burocrazia piemontese di Cavour e il fascismo di Mussolini non riuscirono a unire, sarà posto sotto la medesima egida sotto gli auspici della civiltà consumistica e l’oracolo della televisione». AGLIO E PROMISCUITA’ – «Che cosa significa essere italiani secondo l’opinione degli stranieri? – si chiede quindi il Financial Times -. In Beauty and the Beast, Elisabetta Girelli affronta un soggetto nello stesso tempo serio e spassoso, raccontando come gli italiani siano stati ritratti nei film inglesi negli ultimi 70 anni. E come ci si potrebbe aspettare, è spesso una storia di stereotipi triti e ritriti: gli italiani sono selvaggi, sensuali, primitivi, eccitabili, codardi, comici, fuorilegge e “uniti dall’amore di aglio, promiscuità e musica”».
DIFFERENZE REGIONALI – Uno stereotipo non proprio lusinghiero, soprattutto in occasione del 150esimo dell’Unità d’Italia, ma che Barber cita soprattutto per smontarlo, osservando che si potrebbe ugualmente dire che le caratteristiche degli inglesi sono «inibizione, ipocrisia, snobismo e vacuità emozionale». Cogliendo quindi la palla al balzo per alcune osservazioni meno scontate: «Nelle loro prospettive politiche e condizioni economiche, preferenze culturali e fedeltà regionali, persino nei cibi locali e nei dialetti, gli italiani rimangono più diversi che mai».
L’UNITA’? UN INSUCCESSO – E aggiunge il Financial Times: «Per uno straniero questa è una delle qualità più attraenti del Paese e spiega il motivo per cui milioni di turisti ogni anno affollano l’Italia. Ma i politici che hanno governato il Belpaese, fino alla catastrofe della sconfitta, dell’occupazione e della guerra civile durante il secondo conflitto mondiale, spesso hanno visto le cose in modo diverso. I loro sforzi persistenti per forgiare una singola identità nazionale attraverso una materia che era ostinatamente resistente alle manipolazioni sono uno dei fili conduttori della storia della Penisola dall’unificazione nel 1861». E a scanso di equivoci, il Financial Times cita The Pursuit of Italy di David Gilmour, il cui pensiero in sostanza è che «l’unificazione italiana non è stata né inevitabile né particolarmente di successo nel rispondere alla domanda su che cosa volesse dire essere un “italiano”».
TEORIE ANTISTORICHE – Come osserva Gilmour infatti, «a generazioni di alunni europei è stato insegnato che Napoleone ha portato in Italia l’idea dell’unificazione del Paese, che la sua sconfitta ha causato un triste intermezzo di oppressione e reazione, e che il destino dell’Italia è stato finalmente realizzato grazie agli sforzi eroici dei suoi patrioti. Ora la teoria deterministica è completamente antistorica. L’Italia non era predestinata all’Unità, più di quanto lo fossero Scandinavia, Yugoslavia o Nord America». E come fa notare il quotidiano finanziario, «dei tre grandi eroi del Risorgimento, lo statista torinese Camillo Cavour parlava meglio il francese che l’italiano e inizialmente avrebbe preferito un Piemonte allargato in grado di dominare l’Italia settentrionale, piuttosto che una Penisola completamente riunificata. Giuseppe Mazzini, il patriota rivoluzionario, era così ossessionato dal sogno dell’indipendenza da perdere di vista l’importanza delle tradizioni regionali dell’Italia. Solo l’avventuriero militare Giuseppe Garibaldi, secondo Gilmour, è stato indubbiamente una figura eroica: la Marina britannica lo riconobbe sparando a salve in suo saluto quando salpò per l’isola di Caprera dopo le sue vittorie nel 1860».
IL GIUDIZIO DI MUSSOLINI – Mentre all’inizio del libro Ordinary Violence in Mussolini’s Italy, Michael Ebner cita uno sdegnoso Mussolini che diceva: «Gli italiani sono un popolo di pecore. Devi tenerli allineati e in uniforme dalla mattina alla sera. Hanno bisogno di bastone, bastone, bastone”». Per lo studioso, «come i suoi predecessori liberali, Mussolini bramava creare una comunità nazionale unitaria e utilizzò la guerra con questo scopo. Ma il vero lascito della sua dittatura è stato quello di screditare l’idea nazionale. Nella misura in cui il regime ha integrato forzatamente le persone nella vita politica, è stata la politica della brutalità ad avere costituito l’esperienza nazionale condivisa».
IL SUCCESSO DELLA MODA ITALIANA – Ma come si spiega l’affermazione in tutto il mondo degli abiti di moda, delle auto Ferrari e di altri prodotti italiani di design? Il Financial Times prova a rispondere citando Emanuela Scarpellini, autrice de «L’Italia dei consumi. Dalla Belle Epoque al nuovo millennio»: «Per i lettori di economia, la domanda più interessante è che cosa abbia reso il design italiano un successo così strepitoso dopo il 1945. Per Scarpellini, l’artigianato, la produzione di massa e i prezzi abbordabili hanno inviato un certo messaggio relativo ai prodotti italiani». L’autrice afferma infatti: «Il messaggio che questi prodotti hanno inviato all’estero è stato che l’intero spazio umano è importante e che tutto può avere una dimensione estetica. Rompendo così, o quanto meno appannando, il tabù secondo cui il valore estetico era una prerogativa esclusiva delle elite della società».
(Pietro Vernizzi)