Ha chiuso la sua vita ad appena 18 anni, alle 3 di notte; come tanti prima di lui. Ma stavolta gli amici che gli erano stati compagni di strada non si sono rassegnati a mettere il silenziatore alle loro emozioni, o al massimo a scioglierle nell’alternanza tra un battimani e una lacrima davanti alla bara. Hanno scelto di affidarle a Facebook, ed è stato uno straripare: perché quel tam-tam elettronico ha coinvolto rapidamente oltre 400 persone.



Nicola, ragazzo padovano morto in un incidente stradale mentre tornava a casa in macchina, ha perso la vita su una strada che i suoi amici hanno trasformato in un simbolo: “Troppe banalità, troppi stereotipi, troppe pseudo carriere future, insomma troppi imbrogli hanno cercato di eliminare le sue passioni, prima ancora che ci riuscisse una strada dimenticata dagli uomini, senza segnali, senza illuminazione senza regole e senza futuro”.



Per una volta, è una storia che appartiene a un copione diverso da quello cui è abbonato il Nordest degli stereotipi: di cui si parla solo per i grandi, di età e di portafoglio; quelli che vivono di Pil; quelli che producono ricchezza; quelli che sono tutt’uno con la produzione. “È tempo che gli adulti inizino ad assumersi le responsabilità di questo mondo nel quale i giovani da soli non possono che soccombere”, sollecitano gli amici di Nicola. Il quale, aggiungono, “come in mille altre esperienze di vita ha cominciato a essere uomo affrontando la grande distanza tra i suoi sogni, le sue aspirazioni, le sue speranze e un mondo adulto che offriva troppo benessere materiale in cambio di valori, troppe illusioni al posto di sicurezze e troppa faciloneria al posto di regole”.



E che ci consegna un testamento eloquente: “Non si può pretendere che i giovani costruiscano da soli sicurezze, canoni e regole, mentre troppa parte del mondo adulto, dai piccoli e dai grandi livelli, rivendica il mito della ricchezza a tutti i costi e il dissolvimento relativistico della dignità delle donne e degli uomini. Non ci può essere salvezza per questa terra e per questo Paese, se gli adulti non prendono atto del fallimento del relativismo consumistico e non accettano l’idea che solo i giovani ormai possono salvare il nostro futuro”.

 

Parole forti, pronunciate come sono da una terra dove “il mito della ricchezza a tutti i costi” ha finito per diventare la bussola di una società che si è scordata dei propri antichi valori. Sono soprattutto i ragazzi del Nordest a sentire su di sé la morsa del vuoto, spiegava qualche tempo fa un rapporto del Censis. Un’altra ricerca segnala che un adolescente su tre dichiara di non avere alcun modello di riferimento, e solo il 5% lo trova nei genitori; sette ragazzi su dieci hanno paura della sofferenza interiore, sei su dieci della solitudine.

 

Così, per esorcizzare il silenzio in cui sono immersi e di cui sono prigionieri, hanno bisogno di affidarsi al frastuono della discoteca o al cicaleccio dello spriz. L’hanno chiamata giustamente “la generazione invisibile”, perché non riesce né a essere vista, né a farsi vedere. E che si è trovata, non per sua scelta, a vivere in un tempo sospeso, dominato dalla logica del “non più e non ancora”, specializzato nel fare sterminio del passato e nel vaporizzare il senso del futuro.

Tacciono su se stessi, i ragazzi di oggi. Ed è a questa condanna che gli amici di Nicola vogliono sottrarsi: “Aiutateci a salvare noi stessi e tutti noi, e non permettiamo che il suo lascito sia stato inutile”. Hanno diritto a essere ascoltati. Perché le loro speranze, i loro progetti, il loro esistere, non finiscano su una strada per una tragica fatalità. O peggio ancora andando consapevolmente in cerca della parola fine, al casello terminale di una vita disperata.

 

“Mi avete dato tanto, tranne quello di cui avevo bisogno”, ha lasciato scritto ai suoi genitori un’adolescente veneta che si è suicidata tempo fa. E forse neppure allora siamo riusciti a capire quanto male faccia, dentro, il morso del vuoto.