I paesi europei hanno bocciato le proposte italiane sui clandestini e non hanno voluto saperne di prenderseli in casa propria. C’è chi ha accusato l’Italia di violare le norme di Schengen e di invocare senza fondamento la direttiva sulla protezione temporanea. Ilsussidiario.net ne ha parlato con Bruno Nascimbene, docente di Diritto dell’Unione europea e di Diritto degli stranieri nell’Università statale di Milano. «Partiamo dalle norme in questione. Esse sono la Convenzione di Schengen del 1990, e un regolamento, adottato nel 2006, che si chiama Codice frontiere Schengen e che modifica alcuni articoli della Convenzione. Ma queste norme riguardano la libera circolazione delle persone da un paese all’altro, non sono state pensate in riferimento a flussi di immigrati e per circostanze di carattere eccezionale come quelle che si stanno verificando».



Le cifre diffuse dal ministero dell’Interno parlano di 16mila persone in due mesi.

In parte tunisini, in parte provenienti da altre regioni dell’Africa, e dunque migranti per motivi diversi da quelli dei tunisini. Dovremmo in realtà distinguere tra chi chiede una protezione internazionale perché discriminato in patria per motivi politici, e chi si sposta per motivi economici, cioè per trovare migliori condizioni di vita. È uno dei motivi di attrito con l’Europa.



Il ministro tedesco Hans Peter Friedrich ha detto che l’Italia sta violando le regole e lo «spirito» di Schengen. Una frase senza molto senso, alla luce di quello che lei sta dicendo.

Sì, perché ci collochiamo in un contesto diverso. Gli eventi cui siamo di fronte esulano completamente dalla normalità dei flussi per i quali è prevista la circolazione regolata dalla Convenzione di Schengen. Va poi fatto un discorso ancora diverso per quella forma di protezione prevista dalla direttiva 55/2001, di cui si parla così tanto in questi giorni.

Quella che Maroni ha invocato di fronte all’Europa, ottenendo una risposta negativa.



È una direttiva che si riferisce agli sfollati, una categoria di persone diverse dai rifugiati e che hanno diritto a ottenere, previa approvazione di un provvedimento da parte del Consiglio dell’Unione e del Parlamento, una protezione di carattere temporaneo.

Il commissario Cecilia Malmström sostiene che l’applicazione della direttiva 55 è «prematura» perché pensata per il Kosovo, mentre l’emergenza nordafricana è un’altra cosa.

È una sua valutazione personale. È vero, è stata pensata per il Kosovo, ma questo non vieta di applicarla a situazioni diverse. Ma per capire la nostra posizione dovremmo fare un passo indietro. E domandarci perché non abbiamo chiesto subito il meccanismo di protezione previsto dalla direttiva.

Dove abbiamo sbagliato?

Quando dall’Egitto alla Tunisia regnava il caos e si potevano prevedere ondate di persone in fuga, avremmo dovuto bruciare i tempi e prospettare una situazione di emergenza, chiedendo in via preventiva l’adozione della direttiva. Ma non l’abbiamo fatto, temendo forse che costituisse un effetto-richiamo. L’abbiamo chiesta ieri e ci è stato detto che le condizioni per averla sono discutibili. Troppo tardi, dunque.

Perché discutibili?

Perché troppo opinabili. Non nei numeri del fenomeno, ma nelle condizioni politiche esistenti nel paese da cui provengono i flussi. Se i tunisini che sbarcano in Italia sono migranti economici, allora non sono riconducibili alla protezione temporanea di cui alla direttiva invocata dal nostro governo. Sono o non sono arrivati sulle nostre coste a seguito della crisi economica che ha scatenato il rivolgimento sociopolitico nei loro paesi? Da qui l’obiezione, non del tutto infondata, che ci viene rivolta in Europa: i migranti stanno semplicemente cogliendo il momento opportuno per raggiungere l’Europa e chiedere lavoro. Ma allora perché applicare una direttiva concepita per l’ex Jugoslavia e mai applicata?

Secondo lei l’Italia ha sbagliato a concedere il permesso di soggiorno temporaneo?

L’Italia ha adottato un provvedimento corretto in virtù di quanto prevede il Testo unico sull’immigrazione, avendo la facoltà di adottare i dispositivi che ritiene più opportuni per proteggere determinate persone che entrano nel suo territorio. Ma non può imporli ad altri Stati. Che possono dire: facciamo entrare i tunisini che hanno il vostro permesso di soggiorno a condizione che rispettino i requisiti previsti da Schengen, vale a dire abbiano un passaporto e i mezzi di sussistenza. Ma sappiamo benissimo che i tunisini che sbarcano sulle nostre coste non hanno né l’uno né gli altri. Li controlliamo, ma non sappiamo chi siano. Come negare agli altri paesi il diritto di controllarli a loro volta?

Il fatto è che ad alcuni paesi europei torna comodo non accettarli. Soprattutto se hanno elezioni alle porte.

Queste non sono più considerazioni giuridiche, ma politiche. E ognuno sa far bene i suoi calcoli.

Possibile stabilire dove finiscono le une e dove cominciano le altre?

Molto difficile. Ogni Stato invoca le norme che gli fanno comodo.

Quali strumenti ha in mano l’Italia per non limitarsi alla moral suasion – che non ha – e far valere le sue ragioni di fronte all’Europa?

Nessuno. Non si può sperare che venga approvata una misura di applicazione della direttiva senza la maggioranza qualificata dei paesi membri. Non ci sono altre strade. Lo Stato italiano non può «costringere» altri paesi a farsi carico dei migranti o a dar loro uno status che noi gli riconosciamo.

Secondo lei il nostro paese rimarrà con il cerino in mano?

Probabilmente sì. «Ve li siete presi? Ve li tenete». È la dimostrazione lampante che l’ultima ragione è sempre politica. Dunque è prima di tutto a questo livello che bisogna agire.

Maroni ha scatenato le polemiche evocando una possibile uscita dell’Italia dall’Europa. Ieri il ministro Frattini ha «raffreddato» questa provocazione, dicendo che l’Europa è ormai indispensabile. Ma uscire sarebbe una cosa realmente fattibile?

Teoricamente sì. C’è una norma, l’articolo 50 del Trattato sull’Unione europea, nuova perché introdotta dal Trattato di Lisbona, che prevede il recesso. Uno Stato che non ritiene più di aderire all’Unione europea comunica al Consiglio dell’Unione che intende recedere. A questo punto la norma prevede che lo Stato e l’Unione facciano un accordo in cui si stabiliscono le condizioni di uscita. Se non si raggiunge un accordo, a distanza di due anni da quando ha comunicato il recesso lo Stato è fuori dall’Unione a tutti gli effetti. Questo è il testo giuridico. Ci sono poi le valutazioni politiche.

E come giudicherebbe la decisione dell’Italia di concedere il permesso temporaneo alla luce di una valutazione anche «politica»In modo negativo, perché si è capito subito che non avrebbe risolto il problema. Per l’impossibilità di gestire il fenomeno abbiamo permesso agli immigrati di potersi muovere liberamente sul territorio italiano. Si poteva invece concordare con i paesi di destinazione una linea comune. Le immagini con i migranti che scappavano dai centri e le forze dell’ordine immobili hanno avuto un effetto nefasto: abbiamo dato un’immagine di inefficienza e di grande disordine. E il permesso è stato visto subito come un escamotage.

(Federico Ferraù)