“Giustizia è stata fatta”. Questo il primo commento di uno dei sopravvissuti, Antonio Boccuzzi, dopo la sentenza di primo grado che ha visto la condanna a Torino dei sei dirigenti responsabili della strage alla Thyssen, in particolare la condanna a 16 anni e sei mesi per l’amministratore delegato del colosso dell’acciaio.

Morirono sette operai, uno degli incidenti sul lavoro più gravi della storia italiana, pur costellata pressoché ogni giorno da troppe morti cosiddette bianche, nella più vergognosa indifferenza di tutti, compresi noi giornalisti e spesso anche da parte di molti sindacalisti. Dio volesse che il sacrificio di quei sette operai fosse almeno servito a fare finalmente giurisprudenza, a far capire a manager e a molti operai troppo spesso disattenti, che la sicurezza sul lavoro è un valore di civiltà e non un optional costoso e inutile.

L’accusa è pesante e la sentenza la certifica: omicidio volontario. È la prima volta che in Italia si arriva a una sentenza così grave, per di più con l’aggiunta del dolo eventuale. Le parole pronunciate venerdì scorso dalla Corte d’Assise di Torino entreranno così nella giurisprudenza italiana e d’ora in poi tutto sarà diverso.

Quella spaventosa notte tra il 5 e 6 dicembre del 2007 non sarà dunque ricordata solo nel dolore inesauribile delle famiglie, dei sopravvissuti, degli amici, ma anche in tante altre aule di Tribunale in cui si giudicheranno fatti simili. Occorre ricordare che ogni giorno, in Italia, tre lavoratori non fanno rientro a casa e tanti altri subiscono danni fisici spesso irreversibili, col seguito odioso dell’odissea degli invalidi nei meandri della burocrazia italiana, veri e propri Teseo nel labirinto, controllato dal Minotauro burocrate. Questa sentenza potrebbe per tanti diventare il filo d’Arianna con cui uscire dai corridoi e dalle mille trappole di una legislazione che a parole è favorevole ai soggetti più deboli, nei fatti è quasi sempre dalla parte dei più forti (e più ricchi).

Quando il pubblico ministero Raffaele Guariniello chiese nella sua requisitoria finale quelle condanne, i parenti delle vittime denunciarono la solitudine di fronte all’indifferenza di molti media, degli stessi sindacati, delle forze politiche e perfino della stessa città di Torino. Quell’aula in quel momento era semivuota, c’erano solo loro, con il dolore contenuto di chi aveva perso un pezzo di vita. Vedove, figli, nipoti, amici, oggi sono meno soli. Ma per quanto e per quanti calerà il silenzio, l’oblio, causati troppo spesso dal timore di non disturbare i manovratori? Quante volte i sindacati hanno barattato la sicurezza degli operai per contratti di lavoro? Quante volte la classe politica ha solo strumentalizzato i fatti al momento delle tragedie, sempre e solo quelle eclatanti, che non si possono nascondere, per poi fregarsene e fare accordi con dirigenti e manager il cui unico scopo, per contratto, è il profitto a qualsiasi costo?

Fateci caso: questa sentenza è arrivata sulla base di leggi esistenti da tempo nel nostro codice penale. Non c’è bisogno in questo settore di fare le solite ineludibili riforme. Qui basta solo applicarle perché giustizia sia fatta.

Non torneranno a casa i sette operai della Thyssen e nessun verdetto o risarcimento morale e materiale potrà ridare serenità alle vedove e ai figli, ai padri e alle madri, ai fratelli e alle sorelle, agli amici. Ma questa sentenza dimostra che l’unica via per evitare le quotidiane stragi tra i lavoratori è quella della prevenzione, applicando con rigore e moralità le leggi esistenti.