Diciamolo pure, in modo chiaro: il referendum non è lo strumento più adeguato per fare politica energetica. Una politica che all’Italia manca ormai da troppo tempo. Tanto più non è adeguato quando questo capita a ridosso di eventi seri e drammatici quali un incidente nucleare, o una crisi internazionale e una guerra civile come quella libica.
L’energia è certamente uno dei beni fondamentali per un paese, ormai ce ne siamo accorti tutti. Indispensabile per andare avanti e garantire lavoro, salute, sicurezza, benessere. Servirebbe una seria riflessione e una decisione politica di strategia su questo tema, ben ponderata e condivisa, di lungo termine come richiede la stessa natura del problema energetico. Di certo non emotiva o peggio basata su giochi di opportunità politica. Una buona occasione per dimostrare la reale consistenza di chi ha a cuore il bene comune, non a parole.
Vista dopo un trentennio, l’Italia appare come una nazione che ha deciso di non impostare o guidare una politica energetica, lasciandola al solo “mercato”. Che ha risposto scegliendo la cosa più semplice, più remunerativa e meno rischiosa (per chi investiva): i combustibili fossili, gas in primis. Così che ne dipendiamo per oltre l’85%, e praticamente tutto dall’estero, unici tra i paesi più industrializzati. Il risultato netto è che oggi abbiamo il costo dell’elettricità più alto d’Europa, nonostante si abbia un parco impianti tra i più efficienti. E molte imprese da questi costi risultano decisamente penalizzate.
E dove non ci ha pensato il “mercato”, lo Stato ha avviato sì politiche, ma di sussidi, ad esempio sugli scarti di raffineria e su alcune fonti rinnovabili, che oggi si dimostrano economicamente non più sostenibili nel medio-lungo periodo.
Allora è un bene che il referendum non si faccia. Rischiavamo di ripercorrere lo stesso errore di 24 anni fa, quando (unici al mondo, conviene ricordarlo) decidemmo di spegnere le nostre centrali nucleari, di chiudere un intero settore industriale, di abbandonare una tecnologia, di accollare ai cittadini il costo della scelta e di dipendere ancora di più dal petrolio e soprattutto dal gas di altri paesi (Iran, Libia, Algeria, Russia; e oggi vediamo bene cosa significhi in termini di sicurezza di approvvigionamenti e di legami politici obbligati). E, ironia della sorte, dipendere anche dalla stessa energia nucleare che importiamo sotto forma di elettricità dai vicini francesi, svizzeri, sloveni, in percentuale tutt’altro che trascurabile.



È evidente che l’ultima decisione del governo di abrogare gli articoli di legge riferiti alla costruzione di nuove centrali, per eliminare il referendum, ha due giustificazioni. Da una parte, più che un ripensamento sulla scelta industriale per il paese, sembra una possibilità lasciata aperta, per il prossimo futuro. Forse a dopo la verifica sulla sicurezza dei reattori in funzione in Europa e anche di quelli di nuova generazione che si voleva costruire in Italia, e a tempi più ragionevoli. Ma per mantenere in vita questa opzione e impostare un confronto serio non si potrà solo attendere tempi migliori. Serviranno azioni concrete e di lungo periodo, di condivisione e di informazione.
Dall’altra, appare una scelta di opportunità politica per ridurre i contraccolpi di Fukushima sulle prossime elezioni amministrative, ed anche per evitare il suo effetto di trascinamento al voto referendario, che oltre all’acqua pubblica vede il quesito sul legittimo impedimento.
A questo stato di cose, il paese è giunto costretto dall’ideologia anti-nucleare che si è risvegliata dopo oltre vent’anni di decadimento post-Chernobyl. E che, oggi molto peggio e differentemente da allora, ha completamente obnubilato la realtà e le proporzioni di un evento catastrofico, naturale e tecnologico, comunque umano (sono infatti gli stessi uomini che hanno costruito i ponti e le case e le dighe e le industrie crollate e spazzate via, ma anche i grattacieli e le centrali nucleari che sono rimaste in piedi dopo sisma e tsunami; per tutti, loro e noi, rimane intatta la domanda di senso). Una posizione ideologica opportunistica ed istintiva, come quella di chi ha proposto il referendum per meri motivi di guadagno politico, trovandosi poi a cavalcare l’onda di uno tsunami mediatico, con la corresponsabilità di quei media che tale tsunami hanno generato, incuranti del reale dramma del popolo giapponese ma interessati solo al tornaconto immediato in termini di audience o in termini politici (tralasciando l’enfasi e la qualità tecnica e scientifica delle notizie sul nucleare, ci si limiti al confronto dei minutaggi dedicati dalla NHK, televisione di stato giapponese, all’emergenza nucleare e alla descrizione della situazione generata da sisma e tsunami nel resto del paese, e li si compari con i minutaggi dei media italiani dedicati all’apocalisse nucleare: inquietante).
E forse, costretto anche dall’insipienza di una parte del governo e degli organismi statali che hanno perso parecchio tempo nella realizzazione di alcuni passaggi chiave (si pensi al ritardo di oltre un anno nell’avvio dell’Agenzia di Sicurezza, o alla fase di comunicazione e informazione che non è mai partita, o alla discussione e presentazione della strategia energetica e nucleare, che non ha visto la luce).
Buona parte del mondo industriale ed anche diverse organizzazioni sindacali aspettavano la riapertura dell’opzione nucleare quale contributo alla ripresa lavorativa, economica e tecnologica del paese. La possibilità ora sembra svanita, speriamo sia solo sospesa. Ma il problema nucleare ed energetico rimane e deve essere affrontato. Non è stato spazzato via col referendum. Chi si sente responsabile si faccia avanti, con argomenti e proposte.

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