Caro direttore,

come è noto a pochi, i cosiddetti beni comuni non indicano beni di proprietà pubblica, dello Stato o dei governi locali, ma, invece, tutti quei beni – naturali e non – che sono privi di restrizioni all’accesso e che sono indispensabili per la sopravvivenza delle comunità che con essi interagiscono o che hanno con gli stessi un rapporto inestricabile di co-evoluzione.



Essenziale, per garantire, la riproducibilità di questi beni, che sono non contendibili, ossia che vanno a benefico di tutti e che se ben conservati non deperiscono per l’uso, è il loro buon governo, la cosiddetta loro governance eccellente. Le popolazioni delle società segmentate ci danno preclari esempi a questo proposito: conservazione secolare delle risorse naturali e storico-ambientali, oppure di risorse scarse (acqua, fertilità del terreno). Tali risorse continuano a garantire la sopravvivenza di quelle popolazioni e spesso a migliorarne la qualità della vita grazie al buon governo delle medesime.



Il Santo Padre, nell’ultima Sua Enciclica Caritas in Veritate, si riferisce esattamente a tali beni comuni quando auspica il fiorire di forme di proprietà diverse da quella capitalistica. Proprietà che per sua intima natura non può meccanicamente riprodurre e conservare i beni comuni (la retorica della Corporate Social Responsibility è lì a comprovarlo). Elinor Olstrom ha vinto recentemente il Premio Nobel in Economia (un vero miracolo) per aver dedicato tutta la sua vita allo studio di tali beni comuni.

Mi sono venute in mente queste considerazioni leggendo l’articolo de Il Sussidiario “”. A mio parere, il problema è squisitamente di tipo proprietario. Insomma: la questione più importante oggi, per quanto concerne il nucleare, è la sicurezza. Lasciamo in secondo piano i discorsi tecnici importantissimi relativi alla produttività energetica e al calcolo costi-benefici, sia in merito alla costruzione, sia in merito alla manutenzione delle centrali. Ciò che conta, per l’immaginario collettivo e per la concreta scelta di fornire energia al mondo e ai suoi abitanti anche con l’atomo, è oggi quella di discutere di allocazione dei diritti di proprietà anche in merito al nucleare.



Ebbene, l’unico modo per garantire la sicurezza è trasferire la proprietà delle centrali nelle mani degli utilizzatori in forma di proprietà cooperativa, siano essi singoli cittadini, siano essi comunità locali istituzionali, siano essi imprese, siano essi associazioni. La teoria dei diritti di proprietà, del resto, ci insegna che il modo migliore per abbassare i costi di controllo e di gestione – e in questo caso la buona gestione è essenziale – è quello di far sì che il consumatore finale coincida con il proprietario.

Una proprietà diffusa cooperativa ha in sé la spinta a governare bene uno strumento pericoloso come le centrali nucleari: ne va della sopravvivenza dei proprietari-consumatori. Non possiamo fidarci di imprese come la Tepco, che, nonostante l’etica dei Samurai, ha mentito spudoratamente per anni al Governo e ai consumatori. E la crisi da stock options, ossia da eccessivi rischi che i top manager finanziari hanno riversato sulle spalle degli innocenti, ci dovrebbe insegnare che dove esistono potenziali armi di distruzione di massa è più opportuno che non operino incentivi materiali a favore di coloro che godono delle asimmetrie informative del controllo rispetto alla proprietà.

La proprietà deve essere diffusa e cooperante e l’impresa non deve distribuire individualisticamente profitti. Essi vanno distribuiti per remunerare salari e stipendi e compensi equi agli amministratori eletti dai consumatori, dopo aver accantonato le risorse necessarie per mantenere costantemente perfetta la manutenzione. Piuttosto che di referendum e di diffusione di stolte prevenzioni bisognerebbe discutere di diritti di proprietà. Qual è quello più idoneo per garantire il bene comune della sicurezza atomica?

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