“Carissimo Padre, soffro di una grave depressione. Non ho più voglia di vivere. Sono stanca di un’esistenza vissuta tormentata di fantasmi, di ossessioni. Non ho certezze, cammino nelle sabbie mobili della mia neurosi. Una vita assurda, che passa fra ricoveri in ospedale e psicofarmaci. Per una persona come me, che ha perso il gusto di tutto ed è attratta dalla forza della disperazione, verso l´annullamento di me stessa, la Risurrezione di Cristo ha qualcosa da dire, può diventare una ragione per continuare a vivere”.
Ecco, vorrei dedicare alcune brevi parole a quanti come lei o come me sono passati o sono nel mezzo di questa terribile malattia e che sono pressoché dimenticati non solo nella società, ma spesso anche da noi che diciamo di aver incontrato Gesù. “Se Cristo non fosse risorto vana è la nostra fede”, dice san Paolo, e se Cristo non fosse contemporaneo ed io non potessi vederlo e toccarlo, sarebbe assurdo ancor di più per noi che per gli altri l’esistenza carica di quello che Cesare Pavese chiamava “L’oscuro male del vivere quotidiano”.
Eppure guardando la mia vita, i lunghissimi anni in cui ho provato l’odio verso me stesso e la realtà, tormentato dalle ossessioni più terribili, o guardando la vita dei miei pazienti che hanno perso la testa e convivono con me, non posso non riconoscere l’evidenza della Resurrezione di Cristo in me e in coloro che addirittura hanno perso l’uso della ragione.
Evidenza che si rende manifesta nei pochi momenti o istanti in cui la libertà si sveglia ed insieme diciamo: “Io sono Tu che mi fai”. E quella serenità, che come un raggio di sole in piena tempesta brilla sui loro volti, dice con potenza che Lui è risorto ed è qui. Anche nei momenti più bui ho sempre toccato con mano la vittoria di Cristo. Ma pensate cosa significhi per un marinaio sorpreso d´improvviso dalla tempesta, e che vede la sua imbarcazione sprofondare lentamente nelle acque, l’avvicinarsi di un’imbarcazione più grande. La sua disperazione diventa gioia. Così è ogni giorno per me, e per i miei amici la cui vita è segnata per sempre dalla malattia.



Ma quel “sempre” della malattia, di questa malattia esistenziale è superato infinitamente, redento, da quel Tu che mi chiama, ci chiama a vivere l’esperienza del Calvario che vorremmo evitare. Eppure siamo chiamati a viverlo senza ridurne il percorso, le caratteristiche, senza adeguarlo ai nostri criteri, cercando scappatoie con l’illusione di arrivare prima alla Risurrezione.
È una battaglia, ma per assimilarci a Gesù, per lasciarci afferrare per mano da Lui seguendolo nel cammino, e senza saltare un millimetro del percorso, perché solo così sperimentiamo la gioia della Resurrezione.
Sì, amici miei, esiste la depressione, esiste l’oscuro male del vivere quotidiano, esiste anche la pazzia, esiste il tuo dramma come il mio che non mi lascia un minimo tranquillo, ma Cristo è risorto.
Così, sia tu che io, come i miei “matti”, come chiunque uomo non abbiamo motivi per dubitare della Sua Presenza. Neanche quando l’oscurità ci avvolge, perché Dio ci dà sempre una fessura attraverso cui la luce entra e sveglia la libertà che può, sempre, sostenuta da qualcuno in cui la Presenza di Cristo è evidente, riconoscere e dire con gioia: “Io sono Tu che mi fai”. La nostra malattia è una grande risorsa per riconoscere la vittoria di Cristo sul nostro male. E di questo riconoscimento Dio, come nel mio caso, ma è così per tutti, anche se in forme differenti, manifesta a tutti la drammatica bellezza della vita.
Amica e amici, noi siamo come siamo, però mai potremmo negare di essere una creatura nuova in Cristo Gesù. Fenomenologicamente, per il mondo, siamo solo degli sfigati e rompiscatole, ma ontologicamente siamo Gesù, apparteniamo a Gesù. L’unica cosa necessaria nei momenti bui è la presenza di qualcuno che ce lo ricordi, qualcuno che abbracciandoci sia il riflesso della tenerezza divina. Quella tenerezza che è Gesù stesso, visibilissimo nei volti di questi pazienti. Sono loro, quando li abbraccio e li accarezzo, a testimoniare con il loro sorriso, o con le loro grida, che Cristo è risorto.

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