Nessuna intesa è stata sottoscritta ieri a Tunisi dal premier Berlusconi e dal ministro Maroni con i membri del governo presieduto da Beij Kaid Essebsi, ma gruppi tecnici di entrambe le parti sono al lavoro per raggiungere un accordo. I punti chiave sarebbero il controllo delle coste da parte della Tunisia, l’impegno dell’Italia a mettere sul piatto una cospicua dose di finanziamenti, il sì della Tunisia ai rimpatri. In serata la Lega si è detta disponibile a concedere il permesso temporaneo agli immigrati che attualmente si trovano sul suolo italiano e che darebbe loro il via libera alla circolazione nei paesi che aderiscono al trattato di Shengen.
Intervistato da ilsussidiario.net Gian Carlo Blangiardo, docente di Demografia nell’Università di Milano-Bicocca, giudica positivamente l’azione del governo. Non possiamo permetterci, sostiene Blangiardo, di lasciare “spazio libero” facendo troppe concessioni, perché così facendo dovremmo fare altrettanto per tener fermi ben altri flussi. E risulterebbe a quel punto impossibile.
Blangiardo, con Tunisi la trattativa è aperta ma non conclusa. Qual è la sua valutazione allo stato delle cose?
Siamo di fronte ad un’emergenza che è solo occasionalmente tunisina, ed è bene sottolinearlo. I 20mila arrivi dall’inizio dell’anno ci sembrano una cifra imponente, ma stiamo semplicemente “assaggiando” le potenzialità di spostamento migratorio da un piccolo paese che non è in condizioni peggiori di altri.
Allude alla «bomba» rappresentata dall’Africa subsahariana?
Certamente. Ricordiamoci che nell’Indice dello sviluppo umano (Human development index, ndr) la Tunisia è 81esima in graduatoria su 169 paesi. Parliamo di un paese con 8-9mila dollari di reddito procapite annuo, in un continente dove i paesi che stanno bene hanno mille o duemila dollari di reddito. Ma in Liberia, per fare un esempio, il reddito procapite annuo è di 200 dollari. Nemmeno dal punto di vista migratorio la Tunisia rappresenta l’enorme pressione che potremmo essere indotti a supporre guardando le immagini in tv. Attenzione, perché il Congo ha 60 milioni di abitanti, non dieci…
Come giudica la proposta fatta ieri a Tunisi da Berlusconi e Maroni e ora in fase di studio?
Buona. In questa fase occorre chiarezza: non possiamo permetterci di lasciare «spazio libero» facendo troppe concessioni, perché così facendo dovremmo poi fare altrettanto per tener fermi ben altri flussi. E risulterebbe a quel punto impossibile arginarli.
E nel complesso qual è la sua opinione sulla politica del governo vista finora?
Penso che ci sia stato, da parte di un governo, non dimentichiamolo, a forte componente leghista un atteggiamento di apertura e di disponibilità alla trattativa perfino superiore a quello che forse mediamente ci si poteva aspettare. Forse anche un pizzico in più di quella che sarebbe stata forse necessaria per dire: fermiamoci, perché avanti così non si può andare. Comunque, tutto è avvenuto nel rispetto dei diritti umani e dunque con tutte le cautele del caso.
Perché il messaggio è così importante?
Da una lato perché i flussi migratori sono una potente arma di ricatto. E dall’altro per ridimensionare, dal nostro punto di vista italiano, una percezione del fenomeno che risulta superata: il suo precedente storico è quello degli anni novanta quando sulle nostre coste arrivarono gli albanesi. Ma quello era un paese di 3 milioni di abitanti e, soprattutto, il problema era solo albanese: non interessava la totalità dei Balcani. Ora invece «dietro» la Tunisia ci sono la vicina Libia e l’Africa subsahariana.
Abbiamo commesso degli errori?
Farei un altro ordine di riflessioni. L’Italia come paese ha le mani legate e gli occhi della comunità internazionale puntati addosso. C’è chi, come ai tempi di Zapatero, sparava ai barconi e poi faceva finta di nulla, nel silenzio generale. Penso che il governo abbia fatto di tutto per evitare azioni di propaganda che non sono consentite all’Italia ma lo sono invece ad altri paesi.
La quasi totalità dei migranti, a sentir loro, sono diretti altrove: l’Italia, dicono, non ci interessa. È così?
È comprensibile che un paese francofono sia più portato, anche per motivi di relazione e di catena migratoria, a guardare alla Francia. Non dimentichiamo però che negli anni ottanta, quando cominciò l’immigrazione in Italia, quasi tutti quelli che arrivavano da noi erano diretti altrove: il sogno dell’immigrato di quel tempo era raggiungere il Nord Europa, paesi come la Svezia, o il Canada. Molti erano rifugiati politici. Poi, arrivati qui, si sono accorti che l’Italia non era poi così male. C’è sempre la possibilità che il paese di transito diventi un ripiego migliore della prima destinazione. Soprattutto se quest’ultima non si mostra così disponibile come ha fatto finora la Francia.
Cosa pensa della posizione europea?
L’Europa? Al di là del dire: Vi do quattro euro, arrangiatevi, è stata ed è tuttora latitante. Bruxelles non ha tenuto conto del «pontile» naturale che l’Italia rappresenta per tutto il continente europeo: ci hanno considerato una propaggine di importanza secondaria. Finché il problema non riguarda direttamente gli altri paesi europei, è come e non esistesse. È una constatazione amara, ma difficile da smentire.
Il sottosegretario dimissionario Mantovano aveva auspicato la concessione del permesso temporaneo. Ieri la Lega ha dato il via libera.
Il permesso temporaneo estende il problema all’Europa intera e come tale può essere uno strumento interessante di contrattazione politica. Il rischio è che chi lo dice venga subito accusato di fare un gioco sporco. Ma non è stato quello che si è visto fino ad ora? Giustamente Frattini ha detto: respingere no, rimpatriare sì. È evidente che se ci sono persone che rischiano di morire, salvarle è un dovere. Quindi prestiamo tutti gli aiuti necessari. Però, risolta l’emergenza, la via maestra è quella del rimpatrio.
È possibile arginare i flussi senza concorrere allo sviluppo economico dei paesi nordafricani più vicini a noi?
È chiaro che la pressione espulsiva andrebbe contrastata attraverso un’azione che ne eviti le cause, quindi lo sviluppo locale sarebbe la soluzione ottimale. Azioni e investimenti che, però, non siano pensati solo in termini di ritorno per le nostre imprese, perché questo non risolverebbe nulla. Al contrario, per creare sviluppo e posti di lavoro l’unica strada è investire in formazione. Nel medio e lungo periodo dovrebbe essere questa la strategia, non solo dell’Italia ma di tutti i paesi sviluppati.
Il nostro bisogno di manodopera e la capacità di assorbimento del nostro sistema produttivo possono giustificare l’accoglimento di questi flussi migratori?
Chi lo pensa non ha compreso le proporzioni del fenomeno. Le migrazioni che normalmente ci sono in qualche modo contribuiscono ad attenuare la nostra carenza di manodopera, ma dire: Apriamo a questi flussi perché ci manca la manodopera, mi sembra assolutamente pretestuoso.
Se le fosse data la possibilità di intervenire in una legge in vigore, cosa cambierebbe?
Il problema non sono le leggi. Abbiamo leggi che dal punto di vista del controllo del fenomeno, per certi versi sono forse più restrittive di quanto erano una volta. Il fatto è che poi in realtà, per mille motivi, non sono applicate.
(Federico Ferraù)