“C’è una festa in carcere, devi venire assolutamente”. Il mix tra il calore dell’invito, quasi una convocazione, e il suo contenuto, suonava strano. Però venendo da un amico – l’amicizia serve appunto a questo, a fidarsi di fronte alle stranezze (per questo l’apostolo Tommaso sbagliò, non per la pretesa di verificare personalmente, bensì per lo scarso credito accordato ai suoi amici che gli dicevano che Gesù era risorto) – mi son messo in macchina da Roma a Padova.



Luogo d’appuntamento il carcere Due Palazzi, prigione di massima sicurezza, tutti detenuti condannati in via definitiva e non per qualche marachella. Robe brutte, di sangue, perlopiù omicidi. Alle ore 9 l’ingresso, lasciare tutto, anche i cellulari. In queste ore dietro le sbarre sarò almeno libero dal mio guinzaglio. Siamo più d’un centinaio gli invitati, rigorosamente senza cravatta, in gattabuia è pericolosa, è vietata.



Non appena il gruppo entra nel cortile, ecco venire dalle finestre urla da brivido: “Aiutateci! Stiamo morendo!”. Dalle celle lì in alto i carcerati ci hanno visto e ci consegnano gridando la loro disperazione e rabbia. Beh, come inizio festa è un po’ inusuale. Entriamo nei corridoi; per gli inquilini, agenti e detenuti, è un’onda umana anomala: che ci fa qua dentro, di sabato, tutta ‘sta gente?, dicono le loro facce.

Visitiamo alcune grandi stanze, un po’ magazzini un po’ officine. E qui già il panorama umano cambia: niente traccia di abbrutimento, anzi, atmosfera di cordiale operosità. Chi ci spiega come si costruiscono biciclette, chi ci mostra manufatti di valigeria e di alta bigiotteria. Sono detenuti che lavorano, che guadagnano uno stipendio sindacale, che mandano i soldi a casa, che mentre parlano ti guardano in faccia perché hanno reimparato a guardarsi in faccia. Sembrano contenti, lieti di incontrarsi con gente che viene da fuori. Siamo per loro una boccata d’ossigeno. Loro chissà quando potranno respirarla l’aria di fuori. Condanne pesanti.



Salutano con abbracci insolitamente forti un visitatore cinese, qualcuno mi sussurra che fino a poco tempo fa era galeotto, è tornato dentro a incontrare i vecchi colleghi. Ha ucciso e ha pagato per la sua colpa, ora è libero, lavora, fa il cameriere. La notte di Pasqua si è fatto battezzare, la settimana dopo ha preso la comunione direttamente da Papa Ratzinger in visita a Venezia. C’e’ una bella foto, il Pontefice tedesco somministra il Corpo di Cristo all’omicida cinese.

In un altro stanzone c’è un call center con tante postazioni telefoniche. Un condannato dall’eloquio elegante ci illustra il delicato lavoro svolto qui: in base a una convenzione con l’azienda sanitaria locale devono fissare le prenotazioni per visite mediche della sanità pubblica, quelle dai tempi di attesa biblici, quelle che non puoi sbagliare, una tac dopo otto mesi, un’endoscopia dopo l’estate. Se non sei preciso rischi di ammazzare un malato. C’e’ tempo per un aneddoto: poiché c’è anche una convenzione con Fastweb, quando l’azienda, tempo fa, ebbe guai giudiziari e qualche disservizio, c’erano telefonate di clienti inveleniti al call center che esordivano: delinquenti, ladri, criminali! E i detenuti sbigottiti si chiedevano: ma come fanno questi a sapere chi siamo?

Passiamo di gran fuga per le cucine e il laboratorio di pasticceria – mi colpisce la pulizia, altro che certi ristoranti e mense. Qui nascono tra i migliori panettoni d’Italia. Benedetto XVI, col suo spiccato gusto dolciario, ha scelto questi panettoni per i suoi regali personali dello scorso Natale. I buoni panettoni degli ergastolani!

S’è fatto tardi, il vescovo aspetta. Il vescovo? Si, ci sono tre cresimandi tra questi reclusi. Uno di loro si battezza, è albanese, prende il nome di Giovanni, suo padrino è Franco, doppio ergastolo. Un altro padrino è uno della famigerata banda della Uno bianca: coi soldi del suo lavoro in carcere ha adottato a distanza un ragazzino ugandese.

Nell’assemblea mi ritrovo vicino agli anziani genitori e alla sorella di Giovanni. Lei piange di commozione tutto il tempo. Quando il vecchio padre, musulmano, abbraccia e stringe a sé suo figlio carcerato e neobattezzato, mi commuovo anche io. Provo a immaginare tutto quello che passa per la testa a questo anziano genitore, che vede il figliolo malfattore con la veste bianca circondato dall’affetto di tutti; ci riesco solo in parte.

Dopo la messa il rinfresco, tutto preparato in carcere. Squisito. Infine la festa. Si canta insieme, si ride, si lacrima, si ascolta. Parlano persone alle quale l’entrata in carcere deve costare parecchio: Gemma Calabresi, Carlo Castagna, Margherita Coletta. A loro la malvagità umana ha inferto colpi da vertigine, eppure esprimono tutti la loro commossa gratitudine per questa fioritura d’umanità nel deserto del carcere.

Un gruppo di disabili recita Dante, uno che aveva smarrito la retta via, ma che poi ha rivisto le stelle, il professor Nembrini spiega la Divina Commedia, cioè il cammino redentivo del Sommo Poeta, Carlo Pastori intona canzoni sulla mala. Una festa che è un trionfo della realtà sul mondo virtuale che domina le vite di tutti, una festa che ha meritato le centinaia di chilometri di viaggio.

E cito solo qui, alla fine, l’organizzatore e animatore di tutto, l’amico che mi ha invitato (grazie!), Nicola della Cooperativa Giotto, un pugno di cristiani padovani che non ha accettato che la speranza incontrata in gioventù si restringesse, bensì l’ha abbracciata, coltivata e resa rigogliosa tra le quattro mura di una tetra prigione, inondando di luce un oscuro santuario della colpa e del male.

Alle 16 è l’ora dell’addio, i detenuti tornano in cella, noi del gruppo torniamo fuori. È stato l’unico caso benedetto di affollamento delle carceri. Sono risalito in macchina, direzione Roma. Ho messo su un cd del vecchio Guccini. “Chi glielo dice a chi è giovane adesso/ di quante volte si possa sbagliare/ fino al disgusto di ricominciare/ perché alla fine è poi sempre lo stesso…”. Quanto hai ragione Francesco, eppure sapessi quanto hai torto!