Ma in che storia siamo? E’ Avetrana o Acitrezza? Sarah Scazzi solo per quell’h finale nel nome non può essere un personaggio delle novelle di Verga. Ma lo zio Michele, sì. Zio Michè che c’aveva la roba, cioè la terra. E una moglie ingombrante, in tutti i sensi, e una figlia che cresciuta s’è messa con la madre contro di lui. Proprio la più piccola, che a lui piaceva tanto, che l’aveva chiamata con un nome da diva, o da velina televisiva. Tutta la vita a lavorare, dall’alba al tramonto, con un pezzo di formaggio e il caldo o il freddo che annebbiano i sensi, la fatica che ti spezza la schiena. Un mulo, dicevano i compaesani.
Perché non desiderare altro? Perché in certe teste i desideri non ci stanno, non trovano spazio. Sapeva solo che quello doveva fare, gli avevano detto così, fin da piccolo, e poi a casa che ci faceva, solo urla e vergogna, che lui certo valeva poco. Quella nipotina bionda ed esile sembrava uscita da una fiaba, se la sognava la notte. Sarah. Magari avere un figlia così. Aver avuto una fidanzata così, una principessa. Normale che sua figlia, come si racconta di Cenerentola, volesse tenerla a distanza, poi troppo vicina per controllarla, che fosse gelosa, e cattiva. Ma così cattiva da strozzarla in un impeto di rabbia, questo non lo immaginava. Che ci volesse così poco a farla morire, quel fiorellino pallido, come un uccellino, e lo sapeva lui che ne aveva ammazzati da bambino, così, per gioco.
Gli è toccato ancora una volta il lavoro sporco, quello pesante, pauroso. Far sparire quel corpo, le tracce, le prove. Far sparire se stesso, chiuso in un carcere dove stava meglio che a casa su, e almeno si riposava. Zio Michè, col cappellino storto e quegli occhi lucidi e senza fondo, chissà se ci è o ci fa. Perché quella della vittima è la versione che gli hanno accreditato, che gli attira preoccupazioni per la sua salute, che l’ha riportato a casa. Ma lui recita un’altra parte.
Vuol fare il cattivo fino in fondo, salvare la figlia, la moglie, seppellirsi in galera, si accusa e chiede perdono. Il capro espiatorio? Ci vuole intelligenza e coraggio antichi, primordiali, per potersi immolare, come un eroe della tragedia classica. Ne ha coscienza piena, o soltanto rivendica il diritto a una tazza di latte, una scodella di minestra, ogni giorno, gratis, lontano da tutti, con la televisione che prima non poteva mai vedere in pace? Se è matto, Michè, deve uscire, ed essere curato. Se non lo è, che abisso di orrori può aver subito un uomo per essere creduto un assassino, per darsi in pasto ai media, all’odio, per seppellirsi tutta la vita in cella? O è troppo amore, morboso e ossessivo, per quella figlia che s’è visto crescer da lontano, manco se n’è accorto, che era infelice, brutta, sola? Se è colpevole come dice e afferma, lui, solo o con i suoi?
Alle elementari spesso proponevano un esercizio di italiano, su suggerimento di Gianni Rodari. Inventate un finale alle storie, scegliete una possibilità, vedete se tiene il filo. Qui nessun finale tiene, nulla è umano e comprensibile, anche alle ragioni della cattiveria, della violenza. Optiamo comunque per la follia, di Michè o della figlia. E speriamo solo che la storia abbia fine, che cali il sipario su quel paese malato, perché il contagio dei sospetti, delle invidie, delle vendette è un’epidemia, corrompe tutto e tutti, scoperchia scenari di faide e livori animali. Ci manca Verga, per raccontarlo. La televisione non rende. Cerca risposte facili, che chiudano il caso, e invece vanno tenute aperte le domande, sui nostri desideri, sull’educazione, su tante famiglie d’etichetta che si rodono l’anima. L’informazione che subiamo, o che ci meritiamo, apparecchia commedie dove invece brucia l’abisso del male.