La fiducia dei pazienti verso le strutture sanitarie continua a diminuire in Italia. Dal 1996 al 2010, il numero dei sinistri denunciati alle imprese di assicurazione, infatti, è salito del 180%, passando da 6.345 del 1994 a 17.746 del 2008. È quanto emerge un recente rapporto dell’Ania, l’Associazione nazionale delle imprese assicuratrici, presentato in occasione dell’ assemblea annuale. E proprio la scorsa settimana l’Ania ha diffuso il dato secondo cui i contenziosi tra pazienti e medici, nell’ultimo decennio sono cresciuti del 145%, arrivando a costare alle casse delle aziende ospedaliere 500 milioni di euro all’anno.



Non è allora un caso che una ricerca fatta nel 2011 da Francesco D’Alessandro, un giurista dell’Università Cattolica, mostri che l’80% dei mille professionisti interpellati in Lombardia ammetta di aver fatto ricorso a strategie di medicina difensivistica (ricoveri o esami pressoché inutili fatti al fine di non rischiare recriminazioni), che vanno ben oltre la prudenza, almeno una volta nell’ultimo mese. “Sette su dieci hanno anche raccontato di aver disposto il ricovero di persone che potevano gestire tranquillamente in ambulatorio – aggiunge D’Alessandro. E un 60% ha prescritto esami diagnostici non necessari per fare una diagnosi. Evitano procedure rischiose. Perché l’obiettivo è tutelarsi dalle cause”.



Ma quale rapporto tra medico e paziente ha portato a questo livello di conflittualità? Molto probabilmente il problema sta su entrambi i lati. Da una parte i pazienti hanno una pretesa sul proprio stato di salute, che non ammette l’idea dell’insuccesso. E, anche per via delle ristrettezze economiche in cui versano certi malati per via di malattie croniche disabilitanti al lavoro, cercano in tutti i modi un indennizzo. Dall’altro lato c’è un mondo medico iperburocraticizzato, in cui gli ospedali sono diventati aziende e come tali sono vissuti in modo impiegatizio: ognuno fa il suo, rischiando il meno possibile: non una parola in più, non un atto medico in più, ricorso allo specialista per ogni minima incertezza, occhio al budget, al Drg (il prontuario dei rimborsi) e all’orario!



Tra i due poli troviamo un giusto equilibrio; ma strattonato e schiacciato troppo spesso. Il mondo della sanità oscilla tra un supermercato, dove ogni desiderio deve essere realizzato, e una catena di montaggio, dove tanti operai cercano di non darsi noia fra loro e di fare il minimo sindacale. Non sempre è così, anche perché nemmeno gli operai, pur spesso addetti a lavori con meno responsabilità legali, si comportano in questo modo. Ma l’andazzo è questo. E chi entra con impeto e voglia di fare viene presto invitato a “non fare il dottor Kildare”, e a “pararsi le spalle”, se non a parole dirette, almeno dall’ambiente che trova.

È dunque un problema di cultura e ancor prima di educazione a riscoprire da una parte un sano rapporto col proprio corpo che decade e talora non è colpa di nessuno, che non è come lo vorremmo, ma non per questo si deve pretendere il “ritocchino salvifico”. Dall’altra parte va riscoperto l’impeto del curare, messo a dura prova non solo dai pazienti che pretendono che dopo aver avuta salva la vita non resti nemmeno il ricordo dell’intervento, ma anche dal timore di essere tacciati di accanimento terapeutico, e che salvare un paziente finisca per essere additato come un danno fatto ai genitori o al neonato stesso. E dunque da rimborsare dopo anni di udienze e spese legali.

Ma, soprattutto, che si usi la parola “malasanità” quando è davvero tale: se si lucra sui ricoveri, se si incassano tangenti, se si comprano apparecchiature inutili o si spreca materiale o personale; o se c’entra la politica a farla da padrona sulle decisioni cliniche e sanitarie. Non si parli di “malasanità” per ogni errore, che in ogni professione purtroppo inevitabilmente accade. Oggi il medico è una professione in abbandono, perché i giovani hanno paura: già sono in scomparsa gli infermieri, che ancora non sono spariti grazie agli arrivi dall’estero; ma i medici gli vanno dietro a ruota, se ogni accusa si tramuta in un processo, se l’errore si tramuta automaticamente in colpa.