Rosetta Cosa e Walter Pavan sono una coppia affetta da fibrosi cistica. Nel 2006 il loro bambino è nato con la medesima malattia. C’era una probabilità su 4 che nascesse malato, una su due di essere un portatore del gene della patologia. I due vogliono avere un altro figlio, questa volta sano. Per avere una tale certezza, c’è un solo modo: ricorrere alla fecondazione in vitro, selezionando un embrione geneticamente privo della deformazione. La legge 40, tuttavia, impedisce alla coppe fertili di accedere al trattamento. Salvo alcune eccezioni, come i malati di Aids. Secondo le linee guida della legge, infatti, laddove l’uomo sia «portatore di malattie virali sessualmente trasmissibili per infezioni da HIV, HBV od HCV – l’elevato rischio di infezione per la madre o per il feto costituisce di fatto, in termini obiettivi, una causa ostativa della procreazione, imponendo l’adozione di precauzioni che si traducono, necessariamente, in una condizione di infecondità».
Prendendo l’eccezione a pretesto, hanno deciso, quindi, di fare ricorso al tribunale europeo dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo, sostenendo che la legge 40 violi il loro diritto alla vita privata e familiare e quello a non essere discriminati rispetto ad altre coppie. Se le cose stiano realmente così, e quali scenari aprirebbe una sentenza della Corte ostile alla legge italiana, lo abbia chiesto ad Alberto Gambino, Professore ordinario di Diritto Privato e di Diritto Civile nell’Università Europea di Roma, e Filippo Vari, professore straordinario di Diritto Costituzionale presso la stessa università.
Secondo quest’ultimo vale una considerazione preliminare: «Anzitutto è bene precisare che il ricorso non è stato accolto, come hanno dichiarato svariati media, ma è stato ritenuto ammissibile. Anche questo, tuttavia, mi sembra decisamente strano. Sono mancati, infatti, i precedenti gradi di giudizio interni allo stato italiano che, in casi eccezionali, la Corte ammette che si possano saltare. Ma è molto dura ammettere che siamo di fronte ad uno di questi. Il primo giudice di fronte al quale la coppia avrebbe dovuto far valere i propri diritti, se li riteneva calpestati, era quindi quello della Corte costituzionale».
Un ricorso che, in ogni caso, «sarà valutato nel merito, probabilmente tra anni, dato che la Corte ha in sospeso centomila casi». Posto, in ogni caso, che il ricorso venga accolto, è evidente che i giudici di Strasburgo si troverebbero a contestare lo spirito della legge 40. Che consta di due capisaldi: «ha lo scopo – dice Gambino – di consentire a quelle coppie con problemi di infertilità o sterilità, di avere figli, trovando soluzioni all’interno della coppia medesima, senza il ricorso ad un donatore esterno».
Ma c’è anche «un altro paletto». Aggiunge il professore: «si tratta di garantire la dignità e la preservazione dell’embrione e della sua integrità». Il paragone con una coppia in cui l’uomo abbia il virus dell’Hiv è fuorviante. «Il quel caso – spiega ancora Gambino – si impiegano delle tecnologie che operano una sorta di “lavaggio” sui gameti maschili, che vengono purificati dal virus e ripristinati nella loro forma sana. Ma restano sempre gli stessi». Diverso, invece, il caso della fibrosi cistica.
«Non è pensabile che si possa fare un “lavaggio” delle patologie genetiche, perché sono congenite al’interno del Dna. Non è stata ancor inventa una scissione del Dna in grado di estirpare una patologia genetica». Va da sé che non resta che un’alternativa: «l’unica soluzione è eliminare del tutto gli embrioni affetti da patologie genetiche, selezionando quelli non affetti».
Sarebbe inutile, da questo punto di vista, eliminare solamente i gameti malati. «Solo dall’unione dei gameti, quindi dal generarsi dell’embrione, si capisce se ci troviamo di fronte all’insorgenza della patologia». C’è da tenere in considerazione, inoltre, un altro aspetto. Ovvero gli scenari che l’accettazione del ricorso aprirebbe: «Un embrione affetto da patologia genetica non è da meno di uno sano. Sono sullo stesso rango giuridico dal punto di vista valoriale. Non si può eliminare uno in favore di un altro». Se questo accadesse, lo stato delle cose ne sarebbe modificato.
E di parecchio: «si tratterebbe dell’irrompere di una visione eugenetica che porterebbe, oggi, a selezionare gli embrioni perché affetti da malattie genetiche, domani a seconda del colore della pelle o dei capelli». Può, effettivamente, la Corte di Strasburgo sovvertire in maniera simile una legge italiana?
«Le sentenze della Corte –argomenta Vari – valgono nel caso specifico, ma c’è tutta una giurisprudenza costituzionale che ne estende la portata considerandole vincolanti per il legislatore, il quale deve rispettarne le decisioni salvo che non siano ritenute in contrasto con la Carta stessa». Il contrasto, in effetti, si potrebbe sollevare, dal momenti che si introdurrebbe un indirizzo eugenetico nell’ordinamento italiano, «mentre ad esempio – continua Vari – ci sono una serie di sentenze della Cassazione su episodi relativi a pratiche del genere che hanno fatto riferimento, per quanto riguarda gli embrioni, all’articolo 2 (“La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle forme sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” ndr»).
«La palla, in definitiva, sarà rimessa alla Corte costituzionale italiana. A quel punto – è la conclusone di Gambino -, nel momento in cui dovesse verificarsi un conflitto con la nostra legge, bisognerà vedere quale sarà la tenuta della nostra Corte nel lasciare ad un soggetto esterno ai nostri organi di garanzia interna la valutazione di una legge italiana».
(di Paolo Nessi)