Caro Eugenio Scalfari,

Il bene e il male ci sono, eccome. Su come si modulino i nostri modi per riconoscerli, possiamo discutere, ma esiste un modo buono di rispondere all’invito del reale e uno non buono.

Dico questo leggendo il Suo articolo “l’invenzione del bene e del male” (La repubblica, 23 giugno), in cui sostiene che “bene e male sono concetti elaborati dalla nostra mente per dare un contenuto etico alle nostre azioni e un senso alla vita. (…) La realtà è che non c’è nessun senso ultimo alla vita e siamo noi che ce lo inventiamo per rassicurarci”.



Vivo come molti in ospedale a contatto con la sofferenza e il dolore, ma anche con la gioia e il piacere di una malattia vinta. E’ là dove la morte mette con le spalle al muro, dove il dolore afferra il cuore e la mente di chi passa mesi in un letto, dei familiari in lacrime, dei morenti o di chi stringe un bambino in braccio, che si vede che c’è un bene e un male.



E’ nelle frontiere, nei letti di ospedale, nelle sale parto, nelle aule dove una ragazza ha la sua laurea o nella strada dove un ragazzo giovane ha un incidente grave che si scopre che esiste un bene e un male.

Perché cosa è la vita lo scopriamo rispondendo alla realtà, e quanto più la realtà è cruda, scarna e nuda, tanto più sappiamo riconoscere questi due poli.

Non credo che il bene dipenda da un equilibrio “tra l’amore di sé e l’amore degli altri”, come Lei scrive, perché non credo che queste due realtà siano distinte e perciò quasi sempre ostili fra loro, come invece afferma il famoso ritornello che ci risuona nelle orecchie sin dalla culla: “La mia libertà è quella che finisce dove inizia la libertà altrui”. Perché l’amore a sé e quello agli altri non sono altro che il riflesso di un richiamo “altro” che sperimentiamo esterno da noi. Se come Pierpaolo Pasolini non vuole dargli un nome, non può non riconoscere che ogni amore che offriamo è la risposta ad un richiamo – un amore – del reale.



Ed è proprio il reale, l’esterno da noi, la vera sfida. Perché ciò che è bene ha tre premesse: riconoscere l’altro per quello che è, accettando di cambiare opinione quando necessario; accettarne tutti i fattori, senza censure; esserne interessati, attratti, coinvolti senza sentimentalismo, perché senza interessarsi non si conosce. Questo è il bene, che la medicina da secoli mostra: dare il farmaco giusto al malato è bene, perché non censura nulla, lo guarda in volto, se ne interessa. Dare un veleno è l’esatto opposto.

Per la medicina, caro Scalfari, esisteva un codice che indicava il bene: era il giuramento di Ippocrate, quello secondo cui Lei e un paziente africano o svedese avete diritto allo stesso trattamento, quello secondo cui non si deve uccidere, secondo cui se entri in casa di uno per curarlo non vai poi a raccontare fuori quello che hai visto nemmeno se i suoi nemici ti scannano. Oggi, il relativismo etico ha cambiato in apparenza poco, ma ha aggiunto a queste frasi una parolina: “dipende”. Se non c’è un bene, il tuo comportamento dipende tutto dalle condizioni o addirittura stato d’animo, tanto che il nuovo “codice” finisce col recitare, parafrasando: “Compirò ogni desiderio richiestomi dall’utenza, starò in ansia per il budget dell’ospedale, mi atterrò alle mie mansioni e solo a quelle, fino alla fine… del mio orario di servizio”.

Ha mai guardato la serie TV “House MD”? E’ la storia di un medico (ateo), che ogni giorno è alle prese con la malattia, col dolore, nella voglia indefessa di vincerli, per la certezza che esiste un modo giusto e uno sbagliato di curare, che esiste un bene e un male per il malato, tanto da attrarlo in una sfera che rasenta il paternalismo, e invece è solo passione per il reale; per quella grammatica, quel DNA che la realtà ha scritta dentro di sé.

E’ per questo che, a differenza di quanto leggiamo nel Suo articolo (“L’idea che tutto quello che ci accade sia estremamente importante è un semplice esorcismo creato da noi stessi per combattere l’idea della morte”), credo che davvero tutto intorno a noi è importante: non per una nostra pia consolazione, ma perché non possiamo non vedere che la vita dell’uomo oscilla tra due misteri, come Immanuel Kant ben illustrava: la propria piccolezza (siamo microbi invisibili sulla crosta di una piccola particella di polvere a zonzo per il cosmo) e la certezza di un peso legato alla nostra fatica e al nostro orgoglio e alla nostra felicità, che non sarebbero spiegabili solo con l’autoillusione di un briciolo di polvere.

Misteri che cozzano fra loro, e che ci danno la certezza di sapere ben poco del tutto, di come questi due poli possano stare insieme, di come siano presenti eppur in stridore fra loro. L’unica conclusione è che il mistero è molto, ma molto grande, più grande della semplice conclusione “è assurdo” o “è gestibile e comprensibile da me”; e che piccolezza e grandezza sono vere entrambe, ma ad una dimensione forse insondabile; a meno che dal Mistero stesso non ci arrivi un qualche messaggio. E i messaggi ci arrivano. Basta saperli guardare in faccia, non censurare, esserne interessati, come dalle tre “premesse” di cui sopra. In un lavoro che possiamo chiamare sommariamente ma affettuosamente, dai letti degli ospedali, dalle sale operatorie, dai cimiteri e dalle sale di Stoccolma dove si consegna il premio Nobel: “il bene”.