Porto Recanati. Papà, mamma, bambina, una giornata al mare. Di solito quando si raccattano spugne e secchielli, al tramonto, si è accaldati e desiderosi di una bibita fresca, sotto un pergolato, e intanto ci si ingegna a mettere insieme una cena all’impronta. Bisogna pensare a sciacquare i costumi, togliere la sabbia dai sandali, sennò non si chiudono, spalmare un po’ di crema sulla pelle che brucia. E’ accaduto invece che un papà e una mamma, con il figlio di quattro anni e una piccina di tre sul sedile posteriore, abbiano deciso nel parcheggio della spiaggia di chiudere la giornata facendosi una dose di eroina.
Spero che non volessero chiudere così la vita, disgraziati. Non nel senso di senza grazia, che quella per misericordia è data a tutti, ma perché incapaci di vedere la grazia ricevuta, anche solo per quei visetti arrossati che facevano capolino dallo specchietto retrovisore. E che dopo un po’, capendo che non era un sonno normale quello dei genitori, hanno cominciato a preoccuparsi, a piangere. Poi la bambina è riuscita ad aprire la macchina, a scendere e fermare un passante: mamma e papà stanno male, gridava smoccolando. Li ha salvati. Ha permesso un pronto intervento che ha stroncato la morte per overdose.
Che possiamo dire, in una storia così? Che i bambini ci guardano, e non è solo il titolo celebre di un film. Che capiscono, e abbiamo il dovere di essere per loro testimoni credibili, sostegno amorevole e sicuro. Non sono nostri, è un privilegio che ci siano stati donati. Tocca esserne degni.
C’è anche da considerare che quei genitori hanno quarant’anni. Di solito, una volta, quando si era all’antica, e metter su famiglia era un sogno della giovinezza, un obiettivo per cui lavorare con grinta, a quarant’anni i figli erano ormai grandi. Si può a quarant’anni sbandarsi senza un briciolo di responsabilità, di senno, di premura? Si può scegliere di buttare la vita quando si fano due figli.
A meno che questi non siano stati un incidente di percorso, un errore, e speriamo non portino nei loro corpi i segni di una dipendenza assimilata col latte materno. Eppure, anche i peggiori si scuotono, quando arriva un bambino, rialzano la testa, si dedicano a un altro che li strappa dal proprio io malato. Poi c’è da pensare a questi folli giorni d’inizio estate, in cui sta diventando abituale (la stupidità si contagia a mezzo stampa?) abbandonare i bambini in macchina, e due hanno già perso la vita. Ecco, qui il ruolo dei protagonisti è capovolto.
Ma mentre i bambini sono sempre incolpevoli, stavolta chi ha rischiato la vita la colpa ce l’ha. Non giudico la devastazione psichica e fisica, i motivi del degrado umano di quei due genitori. So che non sono in grado di accudire, educare i loro bambini. E che è giusto affidarli a mani, e cuori più spalancati e affettuosi.
Ci sarà da lavorare, da avere pazienza e carità per strappare quei piccoli dai brutti pensieri, dalla paura, dal senso di abbandono: non sarà stata la prima volta che vedevano papà e mamma, cioè la casa, il tutto, per quell’età, cadere nel torpore dopo una siringa condivisa.
Viene un altro pensiero, così, come un soffio: perché quel nome, Porto Recanati, anche dal mare, evoca le colline alle spalle, e un ermo colle, e siepi che escludono il guardo dell’ultimo orizzonte, del mare. Ma non impediscono allo stesso sguardo di volare oltre, di desiderare cose grandi, e un anelito di felicità e bellezza. Non c’è dolore vissuto così forte, e Leopardi ne aveva provati tanti, che possa frenare lo slancio della ragione dell’uomo al suo significato. Svenderlo per vivacchiare sbronzi nelle notti d’estate, o per un buco di ero, è proprio un peccato. Che peccato.