Presentato a Roma un rapporto a cura del Censis dal titolo di “La crescente sregolazione delle pulsioni”.  Il quadro che ne emerge, nel ritrarre come gli italiani affrontano la realtà quotidiana, è allarmante e tragico. La società italiana, dice il Censis, “ha sempre meno valori e ideali comuni a cui appartenere. I legami e le relazioni sociali sono sempre più fragili e inconsistenti”. Non solo: cresce il tasso di violenza e aggressività nel condurre le relazioni stesse, il compromesso per raggiungere i propri scopi viene definito indispensabile, l’individualismo è assunto come unico modo di porsi. Faccio quello che mi pare come mi pare è l’istantanea dell’italiano del Terzo Millennio. Allo stesso tempo cresce il consumo di droghe, di alcolici e di pillole antidepressive, segno di un fallimento e di una fragilità psicologica dato proprio dall’individualismo spinto dell’italiano di oggi. Il criterio base, anche per quanto riguarda la vita sessuale (l’80% dei giovani ritiene che per essere buoni cattolici non serva seguire le indicazioni della Chiesa) nell’agire è: ognuno è arbitro dei propri comportamenti. IlSussidiario.net ha chiesto al professor Alessandro Meluzzi il suo parere davanti a questo quadro.



C’è secondo lei un momento storico preciso in cui lei identifica la fine dei valori e degli ideali comuni e il nascere di relazioni sempre più fragili che il rapporto Censis segnala come realtà di oggi?

Sicuramente il momento in cui comincia la crisi della famiglia. Quando viene meno la famiglia intesa come luogo di stabilità degli affetti, viene meno anche il luogo di educazione ai valori e alla stabilità emotiva. Se non c’è famiglia non c’è comunità, se non c’è comunità non ci sono valori condivisi. All’origine della disgregazione della nostra società come la descrive il rapporto Censis c’è la crisi della famiglia.



L’85 per cento degli italiani ritiene di essere arbitro unico dei propri comportamenti. In questo senso, i compromessi pur di raggiungere il proprio fine sono accettabili, così come la violenza.

E’ una morale totalmente autoreferenziale e autonomica,  ma è una morale della solitudine, tale da generare una assoluta incapacità di riferirsi all’interno di una relazione di comunità, di gruppo. Succede così che quando si scatenano dinamiche dolorose riferendosi la persona unicamente a un io autopercepitosi come onnipotente o impotente a seconda del livello di narcisismo del momento, questa morale ha come unico risultato la produzione di una situazione di difficoltà. Essendo che – ahimè – le circostanze della vita producono maggiormente frustrazione che momenti di pura felicità, di soddisfazione, si cerca di ovviare a queste dinamiche dolorose con droghe autostimolanti, droghe di performance come quelle che usano i giovani in discoteca o stimolanti anti depressivi.

 

Il 48,6% degli italiani, quota che sale al 61,3% nelle grandi città, ritiene che bisogna difendersi e farsi giustizia da soli anche usando metodi violenti e aggressivi.

 

Un uomo che, come abbiamo visto prima, ritiene di poter definirsi da solo, fa diventare ciò che è bene e ciò che è male ciò che ha valore per lui soltanto. E’ il peccato di Lucifero, quello di Adamo ed Eva, quello cioè di definire da sé cosa è bene e cosa è male. In questa dimensione di morale solipsistica la dimensione dell’aggressività va a rinforzare le funzioni dell’io e dell’autodifesa, per cui farsi giustizia da sé diventa unica forma di giustizia possibile.

 

L’80% dei giovani e il 63,5% delle persone adulte ritiene che è possibile essere buoni cattolici anche senza seguire le indicazioni della Chiesa in fatto di moralità sessuale.

Anche in questo caso succede quello che dicevamo prima. Incapacità a definirsi all’interno di una comunità Se pensiamo che chiesa, ecclesia, significa comunità, il motivo di ciò che dice il rapporto Censis è ancora una volta evidente. Parlando in modo esplicito: se ognuno pensa di cantarsele da sé, non si segue la logica del bene, ma quello dei grandi ideali integrati nei propri comodi.

 

Il rapporto Censis segnala una crescita degli utenti di social network come Facebook negli ultimi tre anni da 1,3 milioni a 19,2. Come si spiega una crescita così travolgente?

 

I rapporti virtuali come quelli generati da Internet implicano una incapacità a stabilire relazioni con l’altro, quello reale. In questo tipo di rapporti si cerca la realizzazione esclusiva dei nostri bisogni ignorando quelli altrui. E’ l’esatto contrario di una relazione intesa come dono di sé, è la caricatura di una relazione di autentico amore.

 

La crescita dell’uso di anti depressivi si può spiegare con il fatto che decenni fa era un tipo di malattia  non diagnosticata?

 

Non direi. Bisogna piuttosto vedere a che punto mettiamo l’asticella del concetto di normalità. Se consideriamo la depressione del livello del tono dell’umore una malattia, allora l’asticella viene messa molto in basso. Ci sono grandi industrie pronte a curare i sani inventando la pillola della normalità per ogni giorno della nostra esistenza. Se invece consideriamo la depressione un fatto vitale come lo è la dimensione del dolore, se questa dimensione non viene interiorizzata, se non siamo capaci di contemplare la croce, non siamo allora neanche capaci di vivere la resurrezione. Allora ci sarà sempre una pillola che ci viene spacciata come la soluzione della nostra tristezza.

 

(Paolo Vites)