Si è concluso l’iter legislativo di una delle leggi che hanno maggiormente appassionato l’opinione pubblica in questi ultimi cinque anni: la cosiddetta legge sul testamento biologico. Una legge il cui nome corretto è Disposizioni sulla alleanza terapeutica, il consenso informato e le dichiarazioni anticipate di trattamento. Ogni parola un concetto, ogni concetto un valore, ogni valore un preciso impegno sul piano legislativo, clinico e familiare. Una legge che supera il dilemma che ha attraversato il recente dibattito bio-etico, nell’impossibile tentativo di voler sostituire il principio di beneficienza, centrato sulla tutela della vita del paziente, con il principio di autodeterminazione, centrato sulla autonomia del paziente. Una falsa dicotomia tra valore della vita e valore della libertà, mentre è evidente come l’una non abbia senso priva dell’altra. La legge supera questo dilemma assumendo come punto di riferimento la relazione che lega medico e paziente, fondandola sulla fiducia reciproca, alla base di ogni corretta informazione, e sulla riscoperta dell’etica della cura, dimensione essenziale della vita umana in tutte le sue molteplici dimensioni. L’alleanza tra medico e paziente infatti è conditio sin que non perché il paziente possa ricevere le informazioni di cui ha bisogno per prendere le decisioni che lo riguardano.
Questa legge, per la prima volta, entra nel vivo della dinamica del consenso informato come cardine dell’agire medico, proprio perché sollecita una collaborazione continua tra medico e paziente. Non c’è un medico che, consapevole della sua scienza e del potere che gliene deriva, si arroga il diritto di sostituirsi al paziente nelle decisioni che riguardano quest’ultimo. C’è un sapere che si fa servizio, proprio perché entra in punta di piedi nella vita del paziente, per assecondarne i desideri e dare compimento ai suoi orientamenti. Una legge quindi che mentre dice sì alla vita del paziente dice sì anche alla libertà del paziente e del medico, rispettosa delle coscienze di entrambi e consapevole che entrambi se vogliono essere davvero liberi non possono allontanarsi dal solco tracciato dalla legge naturale.
Non c’è legge positiva che possa dirsi una buona legge se contraddice i dettami della legge naturale, perché se così fosse si produrrebbe un vulnus profondo, una ferita alla natura stessa dell’uomo. Non di un uomo genericamente inteso, ma di questo uomo concreto, di questo medico o di questo paziente. Una legge che ha cercato un bilanciamento tra i diversi principi in gioco, cercando di garantire vita e libertà; senza cedere né al rischio dell’abbandono terapeutico, legato ad un falso rispetto della presunta volontà del paziente, né tanto meno al rischio di un accanimento terapeutico inutilmente carico di ulteriori sofferenze per il malato.
Eppure è stata una legge bistrattata dall’opposizione, che ha rovesciato su di lei ogni possibile insulto, ogni più drammatica accusa, con una violenza verbale ripetitiva che ha rivelato il sottofondo ideologico e a tratti spregiudicato, come è accaduto in tanti emendamenti proposti dai radicali. Un’opposizione che non ha colto il criterio di prudenza, di precauzione e di proporzionalità delle cure a cui la legge si è attenuta in linea con i progressi fatti dalla scienza e dalla tecnica. L’opposizione ha citato in modo contraddittorio e strumentale la Convenzione di Oviedo e il codice deontologico, a seconda della tesi di volta in volta sostenuta in questo o in quell’emendamento. Eppure questa è una legge che, nell’ambito della relazione di alleanza, consente praticamente tutto al medico e al paziente, salvo una e una sola cosa: il malato non può chiedere che altri ponga fine alla sua vita e il medico non può mettere fine alla vita del paziente in modo diretto ed intenzionale. È così dai tempi di Ippocrate e per secoli i medici hanno giurato con queste stesse parole.
Molte cose sono state dette nelle lunghe ore di aula, spesso senza entrare nel vivo della legge così come è scritta, ma avendo come riferimento una immagine distorta, ideologica, ostile di una legge volutamente fraintesa per sostenere, dietro l’elogio appassionato della libertà, tesi e teorie sottilmente o grossolanamente eutanasiche. Mentre l’opposizione, rappresentata da Pd-Idv, a cui si è unita anche una parte piccola ma agguerrita di Fli, scatenava una guerra di parole e di invettive contro l’asse Pdl-Lega-Udc, a questi ultimi si rimproverava la violenza dell’articolato della legge, reo di ribadire con una flemmatica insistenza il suo no all’eutanasia, simbolicamente riassunta nella garanzia della nutrizione e della idratazione al paziente, a meno che non si trovi in condizioni di fine vita.
Più volte è emersa una sorta di confusione tra il fatto che la legge abbia come target specifico soprattutto pazienti in stato vegetativo, e le condizione di fine vita in cui tutti prima poi ci imbatteremo. Questa legge dice con chiarezza che al paziente in stato vegetativo nutrizione e idratazione vanno assicurate, al paziente terminale, in fin di vita molto probabilmente no perché potrebbero essere inutili e dannose. Una distinzione chiara e lineare che permette di circoscrivere molto meglio i confini dell’accanimento terapeutico e che non obbliga nessuno a vivere suo malgrado, solo perché un medico-orco lo tiene prigioniero con un sondino naso-gastrico.
C’è stato un dibattito troppo spesso fortemente ideologico, in cui non c’era riscontro tra le accuse lanciate ai colleghi sostenitori della legge e quanto c’è realmente scritto nella legge. Molte parole grosse sono volate in aula, ma soprattutto molte mistificazioni di quanto la legge dice realmente. La speranza è che la curiosità, prima molla di ogni sapere, spinga le persone a leggere il testo nella sua versione originale, così come è stata approvata dalla Camera. Si accorgerebbero che è una legge assai più mite di quanto i suoi detrattori non vogliano far apparire, perché parte da una relazione di ascolto e di rispetto, in cui il medico tiene pienamente conto degli orientamenti espressi dal paziente, salvo che questi non tendano ad occasionare la sua morte. Il sì alla vita e il no ad una accelerazione della sua fine sono il vero leitmotiv della legge. Tutto qui: ad una persona che esprime precisi orientamenti da attivare quando non sarà più in condizione di intendere e volere il medico garantisce la piena accoglienza di quanto chiede, purché questo non si configuri come una forma di eutanasia.
In realtà è una buona legge, che avrebbe potuto essere migliore, se ci fosse stato un clima collaborativo più ampio ed esplicito. È una legge che avrebbe potuto investire di più sulle risorse da mettere a disposizione dei malati e delle loro famiglie, sulla creazione di strutture ad hoc in cui accogliere i pazienti in stato vegetativo persistente, formula ormai entrata nell’uso, per riferirsi alla platea delle persone a cui si potrà applicare questa legge. In uno sforzo di ulteriore chiarificazione si è cercata una formula scientificamente meno equivocabile per esprimere lo stesso concetto, ma ci sono seri dubbi che l’eccesso di tecnicismo contenuto nel comma 6 dell’articolo tre possa diventare di uso comune…
Molti parlamentari hanno sostenuto questa legge… perché non dimentichiamo che questa legge è passata anche perché c’è stata un’ampia maggioranza trasversale, che ha coinvolto Pdl, Udc, Lega, Responsabili, e parti cospicue di Api, Fli, Pd, ecc. I numeri rendono ragione di un asse trasversale a prevalente, ma non esclusiva, connotazione cattolica. La verità è che il consenso ottenuto conferma un’ampia condivisione emersa nell’aula che nessuno potrà negare. In molte altre occasioni il governo, la maggioranza sono stati battuti, questa volta mai e certamente non per merito esclusivo del Pdl. Ma perché molti difendendo questa legge hanno inteso riaffermare il valore della vita e della verità.
Eppure quante minacce di ricorso al referendum, alla Corte costituzionale, alla magistratura, secondo un dissenso che mentre invocava mitezza, minacciava reazioni di tutt’altro tono! Speriamo invece che i cittadini capiscano, e sappiano ben servirsi della legge.