È in coma da oltre un anno. Una donna di Bergamo, madre di quattro figli (l’ultimo, il quarto, nato miracolosamente dopo che la madre era entrata in coma per un aneurisma cerebrale) è protagonista di un caso che sta facendo discutere i principali media. Il 4 giugno scorso infatti l’azienda presso cui è dipendente, la Nuova Termostampi di Lallio in provincia di Bergamo, fa avere alla famiglia la lettera di licenziamento. Il “periodo di conservazione del posto” è stato superato, non ha più diritto di figurare come dipendente dell’azienda. Rientra nei termini di legge che una azienda, superato il tempo stabilito dal contratto di lavoro, possa licenziare un dipendente che non è più in grado di recarsi al lavoro. La donna infatti è ormai in stato vegetativo. Quello che non va giù a famiglia e sindacati, la Filctem-Cgil, è il contenuto della lettera di licenziamento, in cui si parla della donna come di un “intralcio alla produzione”. “Con la presente” si legge nella lettera di licenziamento “dobbiamo rilevare che Lei ha effettuato le assenze per malattia di seguito riportate. Avendo effettuato 368 giorni di malattia nell’arco del periodo Lei ha superato il periodo di conservazione del posto di lavoro”. E poi: “La discontinuità della sua prestazione lavorativa crea evidenti intralci all’attività produttiva”. Per il marito della donna e per il sindacato un uso della terminologia definito “disumano”, un “atto assolutamente incomprensibile e di assoluta irresponsabilità morale”. L’azienda, denunciando “notizie fuorvianti”, ha promesso querela nei confronti della Cgil. Il marito lamenta che alla moglie non siano stati concessi i giorni di ferie maturati. Erano stati richiesti in modo da non consumare tutti i giorni di malattia. Il Sussidiario si è rivolto all’avvocato Cesare Pozzoli, dello Studio Chiello & Pozzoli, esperto di diritto del lavoro, per cercare di chiarire i veri contenuti dell’episodio.
Licenziata perché ha superato “il periodo di conservazione del posto”: cosa si intende esattamente con questa terminologia?
Il contratto di lavoro prevede, analogamente a tutti gli altri contratti, che il lavoratore renda una prestazione di lavoro e il datore di lavoro la debba retribuire. Ci possono essere casi eccezionali (malattia, infortunio, gravidanza ecc.) in cui il datore di lavoro deve comunque retribuire in tutto o in parte il dipendente che si assenti (in concorso con l’INPS o con l’INAIL) ed è tenuto a mantenergli il posto di lavoro. La norma del Codice civile (art. 2110) rimette la disciplina specifica ai contratti collettivi di lavoro (che sono varie centinaia). Ogni contratto collettivo prevede a seconda della qualifica, dell’anzianità aziendale e della patologia un periodo massimo in cui il datore di lavoro è obbligato a conservare il posto di lavoro al dipendente e ad integrare il trattamento retributivo (in aggiunta al trattamento INPS). Di solito, i contratti prevedono un periodo di conservazione del posto variabile tra i 6 e i 18 mesi. Scaduto questo termine previsto dal contratto di lavoro, il datore non ha più il dovere di tenere il posto a un dipendente malato e può licenziarlo. E’ un sistema unanimemente condiviso che vige da molti decenni.
Ma che garanzie ha allora un lavoratore che si ammali indipendentemente a tal punto da non potersi più recare al lavoro? E’ destinato al licenziamento sicuro?
Il caso di cui hanno parlato i giornali in questi giorni è doloroso, ma il nostro sistema di welfare prevede una serie di trattamenti ulteriori che danno garanzie a chi si trovi colpito da tali situazioni.
Di che si tratta?
C’è l’INPS e il datore di lavoro che fino ad un certo punto retribuiscono il lavoratore malato. Poi in caso di licenziamento dopo un certo periodo (nel caso di specie di un anno) il datore di lavoro è tenuto a pagare in aggiunta l’indennità di preavviso, poi se il dipendente rimane malato c’è ancora l’INPS che eroga il trattamento di disoccupazione (pari a circa mille euro mensili) e i contributi figurativi fino all’anno successivo: si tratta di provvidenze che se il rapporto di lavoro si protraesse oltre i 12 mesi, e dunque di norma senza o con una minima retribuzione, non potrebbero essere corrisposte. Se poi la patologia permane ed è grave c’è la possibilità di chiedere il trattamento di invalidità o la pensione di “accompagnamento” e di ottenere ulteriori sussidi, di fruire di un sistema assistenziale tra i più “protetti” al mondo e di riconoscere ai familiari della persona malata “permessi” retribuiti per l’assistenza secondo la L. 104/92.
Dunque il datore di lavoro ha delle scadenze contrattuali precise.
Di certo, non si può pretendere di obbligare il datore di lavoro a mantenere sine die un rapporto di lavoro con una persona in coma irreversibile, anche perché la giurisprudenza ha più volte affermato che se il datore non “licenzia” il lavoratore entro un ragionevole tempo successivo al comporto perde il diritto a farlo in seguito.
Ma allora secondo lei la vicenda è stata strumentalizzata?
Gli organi di stampa non hanno riportato la vicenda nei dettagli, per cui è difficile rispondere con cognizione di causa. Sembrerebbe che i toni “formali” usati dall’azienda nella lettera di licenziamento e le modalità con cui è stata consegnata siano stati poco rispettosi del dramma personale e familiare; così come è censurabile l’“irrigidimento” aziendale nel negare il godimento delle ferie pregresse per prolungare di qualche settimana il rapporto di lavoro. Ma anche se può sembrare “politicamente scorretto”, l’impressione di una certa strumentalizzazione da parte della Cgil rimane, così come la confusione che è stata ingenerata attribuendo ogni colpa al datore di lavoro.
Può spiegare meglio?
Il punto è questo. Se una persona, madre di quattro figli, è da più di un anno in “stato vegetativo”, è giusto imporre al datore di lavoro di mantenerle il posto di lavoro a vita? In altri termini: è davvero giusto scambiare un’aspettativa morale, di solidarietà e anche di “rispetto delle forme” – che condivido pienamente – con un obbligo giuridico così gravoso? Non è invece lo Stato, il sistema del welfare, il terzo settore, la rete di persone attorno a quella donna a doversene fare carico? Eppoi: che tutela reale riconosce il nostro ordinamento ad una donna, madre di quattro figli? Come sostiene la famiglia? Come favorisce la maternità e questi atti di coraggio (ho letto che la donna è entrata in coma per portare alla luce il quarto figlio) sul piano fiscale, scolastico, educativo, normativo? Queste sono domande radicali che ciascuno di fronte a queste situazioni drammatiche si dovrebbe porre, anziché “sbattere in prima pagina” e sottoporre a ispezione ministeriale l’imprenditore maldestro che dopo un anno di lavoro comunichi il recesso ad una dipendente in coma irreversibile. Ma la demagogia non finisce qui.
In che senso?
Nel senso che, per quello che ho potuto leggere, gli opinionisti e i giornali più accaniti nel sostenere un diritto illimitato al posto di lavoro al dipendente in stato vegetativo sono gli stessi che sostengono in casi analoghi l’eutanasia e che si oppongono al disegno di legge sul “fine vita” attualmente in discussione in Parlamento. Come dire: si può “staccare la spina” su una vita malata ma …devi conservare il posto di lavoro. Qui siamo al paradosso dell’ideologia che, come diceva Chesterton, è sempre “una verità impazzita”. Ma è più facile trovare il “mostro da prima pagina” che riflettere veramente su quella donna, su suo marito e sui loro quattro figli e su quello che questa vicenda chiede a tutti, compreso lo Stato e le istituzioni. E qui non ce la si può certo cavare mandando un’”ispezione ministeriale”.