«Quando arrivò la notizia che un ragazzo era rimasto ucciso in Piazza Alimonda calò in mezzo a noi uno sconforto assoluto. Ricordo un collega che si mise a piangere. Ci chiedevamo com’era possibile che si fosse arrivati a questo, perché era successo quello che era successo. Ci sentivamo imprigionati in qualcosa di più grande di noi, come sei dei poteri oscuri avessero pilotato la manifestazione fino alla morte».



Chi parla è uno delle migliaia di poliziotti che dieci anni fa presero parte alle giornate del G8 a Genova, sfociate il 20 luglio nella morte di Carlo Giuliani di cui si ricorda appunto il decennale della morte. Il poliziotto che abbiamo intervistato lo chiameremo C., perché vuole conservare l’anonimato, tanto è il peso che quelle tragiche giornate, dieci anni dopo, hanno ancora per chi vi prese parte. “Ricordo questi ragazzi che fermavamo” dice C. “Nei loro zaini spranghe, pietre. Rimanevamo con loro in attesa che fossero portati via, tentavamo di parlarci. Perché tutto questo? Non c’era risposta. Ma avevamo le stesse domande quel giorno, noi e loro. Avevamo gli stessi bisogni e cercavamo di capire cosa stesse succedendo. Qualcosa di troppo grande per tutti e che era sfuggito di mano”.

Di quelle giornate di dieci anni fa ancora oggi è difficile dare un racconto preciso, dettagliato. Ci sono ancora molti lati oscuri.

Purtroppo diversi di noi hanno cercato di dare un contributo, di costruire un dialogo, ma i nostri interventi, anche se richiesti, non sono poi mai stati resi pubblici per un motivo o per l’altro.

Com’era il clima tra le forze dell’ordine nei giorni precedenti il G8? Eravate stati allertati di una serie di manifestazioni così imponenti come poi sono state?

C’era una forte preoccupazione tra di noi. Sapevamo che sarebbero venute moltissime persone e soprattutto sapevamo che Genova non era la città adatta a questo tipo di eventi. Permettere a così tante persone di venire a Genova fu una follia, e lo sapevamo, temevamo che qualcosa sarebbe potuto succedere. Per preparare le forze dell’ordine a fronteggiare un evento del genere, poi, ci sarebbero voluti anni, non poche settimane. Già nei giorni precedenti eravamo rimasti scioccati a vedere le code chilometriche di vetture che arrivavano in città.

 

Nelle ore immediatamente precedenti la manifestazione del 20, c’era stata qualche avvisaglia di quello che poi sarebbe successo?

 

Quello che a noi era stato chiesto di fare e che fu l’impegno primario delle forze dell’ordine fino a quando scoppiarono le violenze, era di allentare la tensione. Nei giorni precedenti avevamo fermato e perquisito diversi camioncini e macchine, trovandovi dentro bastoni, mazze di ferro, biglie di ferro. Nonostante questo facevamo dei semplici verbali di sequestro e lasciavamo libere le persone, proprio perché non si dicesse che la polizia effettuava degli arresti preventivi, cosa che avrebbe fatto salire l’antagonismo. E queste persone lasciate libere non se ne tornavano ovviamente a casa.

 

Come sono cominciate le prime violenze, cosa le scatenò?

 

Un semplice episodio. Sempre nell’ottica di allentare le tensioni, si era raggiunto un accordo non scritto con le tute bianche di Casarin di permettere ad alcuni di loro di oltrepassare la famigerata zona rossa, quella che nessuno poteva oltrepassare. Gli si sarebbe aperto un varco per farli entrare qualche centinaio di metri in modo dimostrativo, per dire che avevano superato la zona rossa. Purtroppo la cosa sfuggì subito di mano, ne entrarono molti di più, c’erano reparti di forze dell’ordine non di Genova che erano all’oscuro di questo accordo e cominciarono gli scontri.

 

In situazione come queste, quando le forze dell’ordine lanciano una carica sui manifestanti?

 

A decidere una carica è il solo capo reparto, dopo essersi confrontato con un dirigente di servizio. Le cariche vengono lanciate in situazioni estremamente gravi, perché mai vengono effettuate in modo da mettere in pericolo normali cittadini che si trovino sul posto. Allo stadio ad esempio le forze dell’ordine non faranno mai una carica indiscriminata in mezzo a una curva dove ci sono degli ultras violenti in mezzo al pubblico normale. La situazione a Genova però sfociò in clima di violenza e aggressione, tanto che fu inevitabile arrivare alle cariche.

 

Si parla tutt’ora di un uso esagerato e indiscriminato della violenza da parte delle forze dell’ordine.

Bisogna capire il contesto e mettersi anche nei panni delle forze dell’ordine. Purtroppo tantissimi filmati di quel giorno che da dieci anni vengono passati in tv mostrano immagini manipolate, cioè solo parziali di quello che avveniva veramente. Bisogna poi provare a capire cosa vivevamo anche noi. Eravamo schierati dalle quattro e mezza del mattino, indossavamo tute ignifughe pesantissime che sviluppano una temperatura interna di circa 40 gradi, in una giornata che era già torrida. Non ci avevano fornito alcuna scorta di acqua, ce la dovevamo comprare noi. Eravamo stati bersaglio per ore di lancio di oggetti contundenti senza che nessuno potesse reagire. Quando sono partite le cariche, poi, inevitabilmente qualche poliziotto, ripeto qualcuno su migliaia, ha perso la testa e ha anche esagerato con la violenza, cosa da condannare sempre. Ma nessuno vuole ricordare che siamo uomini anche noi, messi alla prova in un contesto durissimo. È inevitabile che succedano certi episodi. Forse dovrebbero pensarci quelli che mandano i ragazzi in piazza.

 

Dunque episodi isolati?

 

Personalmente ho passato parecchie ore nel luogo dove venivano radunati i fermati. Posso testimoniare che dividevamo con loro le nostre scorte d’acqua, acqua che ripeto avevamo comprato con i nostri soldi. Parlavamo con loro, cercavamo di capire, di capirci. Ricordo ancora oggi un episodio che mi lasciò sbalordito. C’era questo ragazzo, uno studente che veniva da Pisa con uno zaino pieno di pietre anche grosse. Su ogni pietra c’era scritto “Francesca”. Gli chiesi cosa significava. Mi rispose che Francesca era il nome della sua ragazza che non era potuta venire a Genova, perciò in quel modo poteva dirle che tirava le pietre anche per lei. Ecco, in tutti questi anni ho sempre sentito descrivere la polizia di Genova come dei fascisti violenti assetati di sangue. Vorrei che sapessero che da parte nostra non c’era nessuna rabbia contro i manifestanti.

 

E l’episodio della caserma Diaz, come ve lo siete spiegato?

 

Un episodio che ha sconvolto la coscienza di tutti i poliziotti di Genova. Per giorni erano stati lasciati liberi manifestanti trovati con spranghe e armi, avevamo visto di nascosto che nello stadio Carlini in mano a loro si raccoglieva ogni tipo di arma contundente e non avevamo mai fatto nulla. Poi, a manifestazioni finite, nell’ultimo giorno, questa irruzione inspiegabile. Nessuno, neanche il più stupido fra noi avrebbe mai fatto una cosa del genere, così completamente senza senso. Mandarono dentro il reparto mobile, composto da ragazzini di 19, 20 anni. I manifestanti staccarono le luci pensando che così si sarebbero potuti nascondere, invece scoppiò il panico, il disastro assoluto.

 

Perché quell’irruzione, allora?

Non si è mai capito chi avesse dato l’ordine. Allora, tanto sembrava assurdo, pensammo anche a ipotesi da fantapolitica, che qualche membro cioè dei servizi segreti avesse organizzato tutto per far cadere il governo allora in carica.

 

È vero che i poliziotti che sono finiti sotto processo e in alcuni casi condannati si sono dovuti pagare tutte le spese legali?

 

Certamente. Lo Stato non paga la difesa dei suoi poliziotti. Solo se in ultimo grado c’è l’assoluzione, allora può essere che versi un contributo sulle spese. Conosco una collega finita sotto processo che di spese legali ha pagato più di 60mila euro, obbligata a vendersi la casa per farvi fronte.

 

Alcuni hanno ricevuto condanne anche pesanti.

 

Conosco un collega condannato a due anni e quattro mesi. Ma anche in questi casi, non si conosce davvero come andarono le cose. Furono semplicemente scelti dei capri espiatori. Quel collega si trovava semplicemente nel turno sospettato di aver commesso alcune violenze, lui non ne aveva fatta nessuna. Ma è stato condannato, così a caso. Adesso provano a ricorrere in Cassazione, ma con quello che costa in spese legali, io sarei costretto a rinunciare.

 

Come è possibile continuare a fare questo lavoro, dopo quello che avete vissuto? Dove trovate la forza per superare quei ricordi dolorosi?

 

Le gratificazioni le cerchiamo giorno per giorno. Qualche giorno, so che può sembrare una scemata, un buonismo da quattro soldi, eravamo di passaggio in una zona di Genova. C’era una signora in lacrime che non trovava più la figlia. Ecco: essere lì in queste situazioni, dare una mano aiutando altri colleghi e poi trovare la bimba sono quelle cose che ti fanno sentire quanto è importante questo lavoro, un lavoro che è servizio al cittadino. Noi vorremmo essere con questo spirito anche dentro una manifestazione, se le manifestazioni non finissero in violenza.

 

Dopo i recenti episodi in Val di Susa, tutte le forze politiche hanno decisamente preso le distanze dai black bloc, forse qualcosa è cambiato anche in certi ambienti.

 

Lo spero. C’è un fatto però: quando in Corso Sardegna, quel giorno di dieci anni fa, i black bloc cominciarono a spaccare le vetrine delle banche e dei negozi, erano pochissimi, una decina di violenti in mezzo a migliaia di manifestanti. Nessuno di quei manifestanti fece qualcosa per isolarli, per cercare di consegnarli alle forze dell’ordine. Avrei voluto vedere dei gesti così.