Non c’è nulla di più umano, naturale e bello che guardare una creatura e commuoversi gridando nel cuore: “È mio figlio!”. Non c’è nulla di più umano e più drammaticamente falso. Non è tuo. È per te, ma non è tuo. Anche avessi fatto di tutto per averlo, per farlo nascere. Anche se daresti il tuo respiro per lui, per lei. Non puoi decidere il suo destino, non puoi strapparlo dal male in lui e contro di lui. Non puoi dargli la salute eterna, la vita eterna. Ogni madre, ogni padre mentono alla verità e a se stessi, ogni volta che dicono “mio figlio”.



È l’unica riflessione ragionevole davanti al caso straziante delle gemelline siamesi di Bologna, unite da un solo cuore, troppo debole per tutt’e due. Può la scienza salvarle entrambe? Non può. Ma può farle morire entrambe. E non deve. Può occuparsene la legge? Quale giudice si prenderà la briga di tutelare l’una e sacrificare l’altra? Quale diritto, se non quello antico che sancisce la prevalenza del più forte, apparentemente? Possono scegliere i genitori, avere la responsabilità di questa scelta in solitudine, come viene invocato? È atroce solo pensarlo, scaricando apparentemente le coscienze con l’appello a una libertà finta.



Lo si sente dire, in questi giorni di dibattito arido, perché vale di più la commozione della signora al mercato, che chiacchierando al banco della verdura sospira, e ha solo la forza per dire “povere piccoline”, che non la sicumera dei tuttologi decisi a sancire: l’etica ne stia fuori. Teniamo fuori il giudizio che nasce dal significato che diamo alla vita, al mondo? Teniamo fuori il criterio che ci guida, la storia cui apparteniamo, la speranza che ci dà fiato?

Se teniamo fuori il cuore, da cui derivano i desideri e i comportamenti, non siamo uomini. Come farebbero i genitori a lasciar fuori l’etica, cioè se stessi? E per quale libertà, di scegliere quale eliminare? Su che basi, con che criteri? Questa è più bella, più florida? Per doversi portar dietro ogni attimo il fantasma dell’altra, e il peso di aver sbagliato comunque?



È già capitato: due figli in mare, una stretta disperata del padre, che riesce a strapparne all’acqua uno solo. Ne soffrirà, ma non ha scelto lui. È stato strumento di un’altra volontà. Ma in un simile caso è l’istinto, l’impulso di un millesimo di secondo a muovere. Papà e mamma delle bimbe bolognesi hanno già avuto e avranno giorni, ore di pensieri e dubbi. Non sta a loro. Se ancora vale per la professione medica, vorremmo credere per la vocazione medica, la sublime regola “in scienza e coscienza”, tocca ai medici, e ai più bravi, fare di tutto perché la vita prevalga. La vita di chi potrà farcela. Tocca a loro essere strumenti perché il destino di quelle bambine si compia, com’è per ogni vita umana.

Nessuno ti garantirà mai che, tra due figli, l’uno non soccomba a una disgrazia, a una malattia. Ci si può abbandonare, rabbiosi o sfiduciati, a un fato beffardo, crudele. Scoprirci birilli del caso. Già il fatto che non tocchi a noi soli, ma a tanti uomini e donne al mondo è un conforto, come lo è sempre la condivisione, la fraternità nel dolore.

Ma c’è un’altra possibilità: guardare quei corpicini abbracciati e lasciarli andare a chi misteriosamente li ha voluti per noi, a chi li vede e conosce, da sempre, e li ha donati come segno. Del nostro limite, certamente. Della nostra grandiosa capacità di amare, di rinunciare in nome di questo amore. Non è facile. È terribile, è lo strappo più grande.

Non sono nostri i figli che ci sono stati dati. È più sensato, oltre che dolce, pensare che Qualcuno li abbia voluti e li ama, quaggiù, per il tempo che sarà loro dato. Un battito di ciglia, a fronte dell’eternità.