Attualmente l’art. 51, comma 2, par. f-bis del Tuir (Testo unico sulle imposte e i redditi) dichiara che non contribuiscono a formare reddito da lavoro dipendente “le somme erogate dal datore di lavoro alla generalità dei dipendenti o a categorie di dipendenti per frequenza di asili nido e di colonie climatiche da parte dei familiari indicati nell’articolo 13, nonché per borse di studio a favore dei medesimi familiari”.



Oltre a questo, l’art. 100, comma 1 sempre del Tuir riconosce che “le spese relative ad opere o servizi utilizzabili dalla generalità dei dipendenti o categorie di dipendenti volontariamente sostenute per specifiche finalità di educazione, istruzione, ricreazione, assistenza sociale e sanitaria o culto, sono deducibili per un ammontare complessivo non superiore al 5 per mille dell’ammontare delle spese per prestazioni di lavoro dipendente risultante dalla dichiarazione dei redditi”.



I suddetti due articoli del Tuir sono oggi i principali strumenti a disposizione delle imprese per introdurre al proprio interno azioni mirate a favore dei dipendenti. Tali iniziative sono attivate nella maggior parte dei casi da imprese di grandi dimensioni e si va dal maggiordomo aziendale di tante grandi imprese, agli asili nido aziendali e interaziendali, dalle badanti messe a disposizione dalle imprese al carrello della spesa, dal doposcuola assistito per il recupero delle lacune scolastiche alla lavanderia a domicilio.

In altri termini, le aziende più attente ai bisogni dei propri dipendenti hanno capito che investire sul benessere dei propri dipendenti genera benefici a entrambi, si tratta cioè di pratiche win-win, in cui entrambi gli attori ne traggono un vantaggio. Quindi da un lato abbiamo l’impresa che crea i presupposti per una forte alleanza con il proprio dipendente ricevendo in cambio un suo maggiore attaccamento (con tutti i vantaggi che ne derivano). Dall’altro abbiamo il dipendente che trova nella propria impresa un partner nella soluzione dei propri problemi di conciliazione tra vita famigliare e vita lavorativa, trovandosi ad avere un maggiore tempo disponibile per la propria sfera relazionale e in certi casi addirittura un maggiore reddito disponibile grazie alle agevolazioni fiscali indicate in precedenza.



A questo punto il problema più grosso è trovare una modalità efficace perché anche nelle piccole e medie imprese italiane (oltre il 90% del nostro tessuto imprenditoriale), possano diffondersi questo genere di buone prassi. La proposta del Sindacato delle famiglie è di modificare l’art. 51, comma 2, par. f-bis del Tuir indicando non solo asili nido, colonie climatiche e borse di studio, ma inserendo più in generale tutte le iniziative di welfare aziendale e di conciliazione famiglia-lavoro che una impresa adotta per agevolare i propri dipendenti permettendo all’impresa di riconoscere i servizi offerti come benefit non tassati.

In questo modo non si agevolerebbero direttamente le imprese, ma le famiglie, le quali a parità di retribuzione lorda attuale, vedrebbero parte dei costi che attualmente sostengono non più sottratti alla propria retribuzione netta, ma dedotti dal proprio ammontare lordo, con un evidente incremento del reddito disponibile.

Provo a fare un esempio, per rendere il concetto più chiaro, usando cifre tagliate con l’accetta solo per semplificarne la comprensione. Franco, dipendente di una piccola impresa, percepisce 3000 euro lordi, 1500 netti mensili, composti da 1400 euro di retribuzione minima sindacale e 100 di premio di produzione monetizzato. Per mandare il proprio Luca al nido deve pagare 400 euro al mese di retta, che toglierà alla propria retribuzione netta e li verserà alla cooperativa sociale o al Comune che gli erogano il servizio. Di quei 400 euro ipotizziamo che 100 derivano dal proprio premio di produzione che inizialmente era di 200 euro lordi e una volta monetizzato diventa di 100.

Se invece fosse l’azienda a offrirgli il servizio di asilo nido interaziendale sempre a 400 euro mensili, l’azienda potrebbe riconoscergli 200 euro di premio di produzione sottoforma di benefit non tassato e quindi Franco dovrebbe integrare con soli 200 euro della propria retribuzione netta per coprire i costi del nido. In questa seconda ipotesi, Franco usando solo 200 euro della propria retribuzione netta si è visto incrementare il proprio reddito disponibile di 100 euro al mese.

Una seconda proposta, sempre su questo tema, è la diffusione delle buone prassi sopracitate tra le piccole e medie imprese attraverso la creazione di “reti territoriali di welfare aziendale e interaziendale”.

Le ragioni per cui piccole e medie imprese non avviano iniziative di welfare aziendale sono essenzialmente di due tipologie: una di carattere strutturale legata alle ridotte dimensioni e la seconda connessa agli elevati costi fissi che sono richiesti per introdurre in azienda queste iniziative. Favorendo forme di aggregazione a livello di reti territoriali si possono superare entrambi i problemi e rendere questi servizi disponibili per tutti.

Si tratta quindi di individuare forme di aggregazioni coerenti alle caratteristiche del territorio per consentire alle imprese di realizzare insieme ad altre questi servizi a vantaggio dei propri dipendenti. Tali benefici possono essere sia di natura relazionale, aumentando il tempo disponibile per la vita familiare e rinsaldando il legame tra dipendente e impresa, sia di natura economica in quanto si determina un incremento del reddito disponibile per i collaboratori e a sua volta si determina un incremento di produttività e di efficienza del collaboratore grazie al miglior clima aziendale e al supporto fornito.

A conferma della fattibilità di queste iniziative, riporto due esempi in atto. La Regione Lombardia ha già accolto questa nostra idea progettuale inserendola tra le attività finanziate a livello provinciale in materia di conciliazione famiglia-lavoro. In questo modo, l’ente locale ha davvero messo in pratica il principio della sussidiarietà, creando le condizioni perché la società civile si possa organizzare e dare le risposte migliori.

A Rimini, come Sindacato delle famiglie, stiamo realizzando insieme ad altre realtà della cooperazione sociale il Progetto WelFamily che mira a creare le condizioni perché diverse imprese del territorio possano avviare questo genere di iniziative, andando a coprire quei bisogni a cui gli enti pubblici non riescono a dare risposte.

In questo genere di progetti, c’è anche spazio per gli enti locali, i quali volendo potrebbero partecipare attivamente con un contributo mensile per la copertura del servizio, nel pieno rispetto del principio di sussidiarietà. In una fase economica in cui il peso dei sacrifici è scaricato principalmente sulle famiglie, queste iniziative potrebbero rappresentare un segnale positivo verso questo mondo, le cui richieste sono disattese da troppo tempo e a cui si è aggiunta la delusione causata dalle vane e illusorie promesse fatte finora.

A seguito di una manovra che chiede sacrifici quasi esclusivamente alle famiglie, una scelta di questo genere porterebbe un po’ di benefici e di segnali positivi. Quindi se non si vuole rischiare di creare una frattura insanabile tra politica e famiglie, sarebbe opportuno che l’attuale Governo “battesse un colpo”.

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