All’Università di Stanford, negli Stati Uniti, ci hanno dedicato anche un corso di studio. Si chiama “Progetto perdono”. Altre due università americane, quella del Michigan e quella del Tennessee, hanno invece annunciato dopo uno studio approfondito che perdonare fa bene alla salute: abbassa lo stress, diluisce la rabbia, abbassa la pressione sanguigna. Tutto molto bello, ma i recenti fatti di cronaca, con tragedie scaturite da assurde banalità come una lite al semaforo o, peggio, la follia che ha portato alla morte di oltre settanta ragazzi, istintivamente tengono molto lontani dalla parola perdono. Una parola che si sente sempre più raramente, quando la vita mette davanti a fatti così devastanti che il perdono sembra proprio l’ultima possibilità. IlSussidiario.net ha chiesto alla professoressa Silvia Vegetti Finzi, psicanalista e docente presso l’Università di Pavia, che cosa può permetterci di perdonare, anche di fronte al male. Vegetti Finzi ha partecipato attivamente al Movimento femminista, collaborando con la “Università delle donne Virginia Woolf “di Roma e con il Centro Documentazione Donne di Firenze. Nel 1990 è tra i fondatori della Consulta (laica) di Bioetica.



La cronaca ci porta a confrontarci sempre più spesso con atti di violenza che degenerano anche nella morte, nell’uccisione. In tali occasioni, la parola perdono si sente sempre più raramente.

Il perdono non è un automatismo, non si perdona a priori. Il perdono deve essere frutto di un lavoro interiore che riguarda entrambi, vittima e colpevole. Quando anche il colpevole ha compiuto un itinerario e si duole dell’atto commesso, allora può arrivare con più semplicità e forza il perdono. Deve infatti esistere un compatimento reciproco, un patire insieme.  E’ difficile perdonare là dove il colpevole mantenga un atteggiamento di sfida e continui l’aggressività. Un caso recentissimo: il massacro avvenuto in Norvegia. L’uomo che ha ucciso tutti quei ragazzi non riconosce in questo momento alcuna responsabilità né manifesta un senso di colpa. In un caso come questo allora meglio sospendere il perdono in attesa che qualcosa avvenga che modifichi il suo atteggiamento. Questo ovviamente non deve impedire alla giustizia di fare il suo percorso.



Il cristianesimo però insegna che il perdono può e deve scattare anche prima.

Ritengo che il più grande valore del cristianesimo consista proprio nel perdono. Un concetto introdotto dal cristianesimo che ha scardinato quello dl etiche precedenti, luetiche della vendetta, dell’occhio per occhio dente per dente che si trovano nelle società arcaiche. Si tratta di un valore provante per la nostra società che l’ha conservato ma che, attenzione, deve anche essere oggetto di educazione. Il perdono non è spontaneo, è il raggiungimento di uno scopo alla fine di un lungo percorso di moralizzazione di sé e degli altri.



Lei in suoi precedenti interventi ha parlato anche dell’importanza dell’idea di dipendenza reciproca, necessaria per il raggiungimento del perdono.

E’ l’idea stessa che sta alla base del concetto di amicizia, quella di dipendenza reciproca. L’amicizia che deve essere reciproca e paritetica, almeno nel limite del possibile. Non esiste amicizia vera se non è paritetica. Ho sentito un sacco di volte padri dire “io sono il miglior amico di mio figlio”,ma mai nessun figlio dire “io sono il miglior amico di mio padre”, perché quella tra genitori e figli non è amicizia, è altro. Se non c’è reciprocità non c’è amicizia, anche se padri e figli possono fare tante cose insieme con piacere reciproco. L’amicizia è reciproca negli interessi, nelle passioni, nell’età che si condivide: qualche cosa cioè che permetta uno scambio paritetico.

Dipendenza è un termine forte, anche questo come il perdono sempre più raro nella nostra società fatta di tanti individualismi esasperati.

Esiste oggi tutta una educazione basata sull’autosufficienza, educazione all’autosufficienza, a bastare a sé stessi, di tipo individualistico e narcisistico. Questa educazione rende difficili i rapporti di amicizia, ma anche quelli affettivi. nel rapporto di coppia ciascuno vorrebbe non pagare il dazio della dipendenza, che spesso viene riconosciuto solo quando la coppia scoppia e si separano. La sofferenza della separazione allora rivela la reciproca dipendenza.

Si può dire che la dipendenza, dipendere, è un elemento costitutivo dell’essere umano?

E’ la condizione dell’uomo. Nessuno basta a se stesso. Quando uno nasce è l’essere più dipendente di tutti. Ha bisogno di cure materne per anni prima di esercitare una vera autonomia. Questa riconoscenza che si deve alla madre è il primo atto che rende liberi. Rende liberi anche dalla paura delle donne che molte volte gli uomini provano perché non vogliono riconoscere di essere stati assolutamente dipendenti dalla figura femminile nel primo periodo della loro vita.