Benedetto XVI ha incontrato ieri circa un migliaio di giovani professori universitari nella Basilica del Real monasterio de El Escorial, a pochi chilometri da Madrid. È la prima volta che il Papa chiede, all’interno di una Gmg, di rivolgere la parola personalmente ai giovani docenti. Il luogo scelto non poteva essere più adatto: il monastero costruito da Filippo II, culla della cultura della Spagna del Siglo de Oro e sede della più grande biblioteca dell’epoca. Il Papa ha cominciato il suo discorso, com’è abituato a fare quando parla al mondo dell’accademia, ricordando i suoi anni da professore. A Bonn, nel dopoguerra, faceva i suoi primi passi il giovane professore di teologia, in una situazione difficile, ma dove si viveva ancora lo spirito universitario e dove era ancora acceso il “desiderio di dare risposta alle inquietudini ultime e fondamentali degli alunni”. Benedetto ha voluto ricordare, infatti, cosa c’è all’origine dell’Universitas citando uno dei grandi della cultura spagnola, Alfonso X, detto Il saggio. L’università è la “riunione di maestri e discepoli con volontà e obiettivo di apprendere i saperi”.
Ma, quasi volendo scansare possibili equivoci fin dall’inizio, il Papa ha parlato subito dei pericoli di fronte ai quali si trova l’università in questi momenti. La ricerca della verità non può essere sottomessa a logiche di successo che non sempre hanno la pazienza di chi vuole sapere ma che, al contrario cercano solo di “formare dei professionisti competenti ed efficaci che possano soddisfare la domanda del mercato in ogni momento preciso”. La logica dell’utilità e del successo immediato sono ben note a chi, da giovane, cerca di entrare nel mondo dell’insegnamento. È assai comune nel mondo universitario che la decisione di buttarsi su un certo campo venga dettata dal fatto che “è di moda” – e quindi è finanziata -, e non dall’interesse per la verità e da un desiderio di amore alla persona concreta (invece di quella definita dagli schemi del mondo). È, in effetti, la logica di due degli abusi citati da Benedetto XVI, quello “di una scienza senza limiti, ben oltre se stessa, fino al totalitarismo politico che si ravviva facilmente quando si elimina qualsiasi riferimento superiore al semplice calcolo di potere”.
Ma il Papa, l’abbiamo visto parecchie volte, non si dilunga nelle critiche; preferisce, invece, proporre, mettendo in luce un cammino per chi lo voglia percorrere con lui.
Personalmente, sono stato colpito da due cose. In primo luogo, l’insistenza di Benedetto XVI sul ruolo dei professori nei confronti degli alunni. “I giovani – ha rilevato il Papa – hanno bisogno di autentici maestri; persone aperte alla verità totale nei differenti rami del sapere, sapendo ascoltare e vivendo al proprio interno tale dialogo interdisciplinare; persone convinte, soprattutto, della capacità umana di avanzare nel cammino verso la verità”. Il vecchio professore sa che perché si accenda la passione per la verità ed il gusto per la conoscenza non basta la trasmissione di contenuti disincarnati e freddi ma serve che quella trasmissione avvenga “in modo personale e vitale”.
Ma, potremmo chiederci, come si fa a comunicare così? Da dove tirar fuori una tale passione per quello che insegniamo? Di nuovo, il Papa ritorna al centro della sua preoccupazione: bisogna che quello che comunichiamo nasca da un percorso personale, bisogna che sia nostro, perché il modo di comunicarlo “non consiste solo nell’insegnarlo, ma ancor più nel viverlo, incarnarlo”. Ci vogliono maestri che siano disponibili a condividere la loro passione per quello che studiano con chi, con gli occhi sgranati, vuole sapere; ci vogliono, insomma, adulti. Chi di noi non ha subito pensato, mentre ascoltava o leggeva il discorso, a quel professore incontrato a lezione, magari per caso, grazie al quale si è acceso in noi il desiderio di sapere, di approfondire, di conoscere?
Il secondo degli aspetti che hanno attirato più fortemente la mia attenzione sono state le due indicazioni finali. La prima, un doppio “colpo basso” indiretto. Da una parte, a una certa mentalità asettica che vorrebbe fare del distacco affettivo una premessa per la ricerca della verità e dall’altra, alle multiple forme di sentimentalismo che vorrebbero fare della ragione qualcosa di opposto dell’affetto. Ma il Papa non cede ai divorzi spress e insiste sulla verità del vincolo indissolubile tra ragione e affetto: “Non possiamo avanzare nella conoscenza di qualcosa se non ci muove l’amore, e neppure possiamo amare qualcosa nella quale non vediamo razionalità”.
Dall’altra, quel tocco di realismo che tanto mette a disagio gli illuminati di ultima generazione: la ragione non è onnipotente. La verità, ha detto il Papa “possiamo cercarla e avvicinarci ad essa, però non possiamo possederla totalmente, o meglio è essa che ci possiede e che ci motiva”. In un mondo dove l’arroganza è il sugo dei convegni e delle conversazioni in biblioteca e nei corridoi in facoltà, arroganza alla quale siamo tutti esposti, l’appello all’umiltà di Benedetto XVI è come una finestra aperta. Soprattutto quando quell’umiltà si può vedere da così vicino, vestita di bianco.