La prima stesura della manovra fiscale ha previsto tagli orizzontali a moltissime detrazioni e deduzioni, molte delle quali afferenti al mondo del non profit. Ciò ha riacceso il dibattito intorno al complesso delle agevolazioni in generale, e a quelle di cui gli enti ecclesiastici e gli enti non profit sono destinatari in particolare.
A mio avviso la discussione corre il rischio di essere viziata dalla mancata comprensione della natura di tali norme agevolative, divenendo così una specie di presa di posizione pro o contro la Chiesa; pro o contro il mondo del non profit.
Provo, dunque, a chiarire i termini del problema.
Perché è corretto che una agevolazione esista? In quali casi essa non è un semplice favore dal sapore clientelare? Una agevolazione ha senso di sussistere quando ciò che viene agevolato è un apporto che, provenendo da soggetti diversi da quello pubblico, realizza pubblica utilità.
Per capirci, una realtà privata che distribuisce beni ai poveri compie una azione di interesse generale, che è un bene per la società: il suo operato è di pubblica utilità.
Si tratta, quindi, di guardare in faccia e prendere posizione di fronte all’obiezione che è spesso implicata nel dibattito di cui stiamo trattando: può un soggetto privato – dotato di una propria esplicita identità – realizzare funzioni di pubblica utilità, o tale realizzazione è in qualche modo garantita dal solo ente pubblico? Evidentemente può.
La nostra storia – passata e attuale – è la lampante dimostrazione della infondatezza di ogni dubbio in proposito. La storia dell’Italia è – come ricorda l’importante mostra presentata al Meeting di Rimini dalla Fondazione per la Sussidiarietà – una storia di sussidiarietà, di cadute e di incessanti riprese, che ha avuto sempre un motore insostituibile nella libera aggregazione di persone  che realizza opere.
Lo stesso Presidente Napolitano, nel suo intervento di domenica al meeting di Rimini, ha legato la possibilità di ripartenza  ad un impegno “che non può venire o essere promosso solo dallo Stato, ma che sia espresso dalle persone, dalle comunità locali, dai corpi intermedi, secondo quella concezione e logica di sussidiarietà […]  che ha fatto, di una straordinaria diffusione di attività imprenditoriali e sociali e di risposte ai bisogni comuni costruite dal basso, un motore decisivo per la ricostruzione e il cambiamento del nostro Paese”.



Tornando alle agevolazioni, dunque, occorre ricondurle a ciò che esse realmente sono: riconoscimento a questi soggetti di funzioni che riguardano il bene di tutti.

Pertanto, in quest’ottica vanno guardate le agevolazioni che la nostra storia ha attribuito agli enti non commerciali, dei quali fanno parte anche gli enti ecclesiastici.



Non voglio qui entrare nel merito delle singole agevolazioni, né dei palesi e innumerevoli esempi di concorso al bene comune realizzato dalle parrocchie e da tutto quel variegato mondo di enti senza scopo di lucro di cui è tramata l’Italia. Voglio chiedervi di immaginare se un giorno, all’improvviso, tutto ciò smettesse di esistere e agire: niente parrocchia, niente mensa dei poveri, niente cooperativa sociale che fa lavorare ragazzi disabili, niente associazione culturale. Niente.

Siamo sicuri che saremmo in presenza di una società migliore, in grado di generare quell’anelito ideale che ha portato alla realizzazione di tante opere sociali? Ma soprattutto: siamo sicuri della tenuta del nostro sistema sociale? E ancora: quanto costerebbe allo Stato realizzare in proprio tutto quello che è venuto a mancare?



A ragion veduta possiamo dire che il costo aggiuntivo a carico dello Stato sarebbe in modo imparagonabile maggiore dell’importo dell’agevolazione eventualmente attribuita a tali enti.

Dunque, se è di questo che si parla, si tratta di conoscere veramente ciò che esiste e opera: la sussidiarietà odia la rendita ed è amica della valutazione.

Un mio amico ha una – stupenda – comunità di recupero di adolescenti tossicodipendenti, con delle percentuali di “uscita” di questi ragazzi dalla strada della dipendenza un po’ eccezionale. Riempie metri di carte e moduli per ottenere tutte le autorizzazioni che servono al funzionamento corretto della sua comunità. Eppure, tra tutte le carte che compila, in nessuna gli viene chiesta l’unica cosa che occorre chiedere a una realtà come la sua: ma i tuoi ragazzi, dopo, come stanno? Non ci ricadono più? Sono più uomini? Ricominciano a studiare o a lavorare?

L’agevolazione deve poter essere legata alla risposta positiva a queste domande, che un moderno sistema di welfare deve saper fare.

E deve valorizzare tutte le realtà nelle quali le persone e le imprese identificano un valore, che vedono concorrere al proprio bene: da qui la necessità delle agevolazioni fiscali a chi dona al non profit, del cinque per mille, dell’agevolazione ICI alle parrocchie e – più in generale – agli immobili posseduti da enti non lucrativi e destinati a attività socialmente rilevanti.
Come ha richiamato domenica  il Presidente Napolitano nel discorso citato, occorre oggettività nelle analisi e misura nei giudizi, per portarsi realmente “all’altezza dei problemi da sciogliere e delle scelte da  operare”.

Oggi più che mai è pertanto necessario che chi deve decidere, decida innanzitutto di conoscere ciò che c’è.

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