«L’esser-certo può essere addirittura individuato come la postura fondamentale del nostro “io”. E come ce ne accorgiamo? Ogni qual volta noi, incalzati dall’urgenza delle cose o dall’appello delle circostanze, chiediamo il “perché”, noi attestiamo a noi stessi di essere fatti per una risposta». E ancora: «È solo perché in qualche modo noi la conosciamo già, questa certezza, che possiamo patirne la mancanza. Non si tratta di un’assicurazione o di una garanzia che abbiamo in anticipo sulla vita, ma dell’esperienza originale che tutti ci ha segnati: quella di essere voluti e accolti dallo sguardo amoroso di nostra madre». Sono solo alcuni passaggi della lezione che il filosofo Costantino Esposito ha tenuto ieri al Meeting di Rimini, in un auditorium pieno zeppo, per illustrarne il titolo. Un’ampia meditazione sulla malattia del moderno, sulle contraddizioni che annichiliscono l’uomo quando pretende di negare la natura delle cose, e sulla possibilità di ridiventarne certi, partendo dalla propria esperienza. Una lezione che Giulio Sapelli, economista, ha subito avuto piacere di commentare.
Qual è la sua prima impressione, professore?
Una relazione bella, molto impegnativa ma scorrevole. E molto colta. Esposito ha spiegato molto bene la decostruzione del moderno e in esso la tragicità dell’uomo, che si ritrova grumo di materia senza senso. Si può aggiungere che la coscienza che sopravvive al moderno, inoltrandosi nel postmoderno, non è più la coscienza dell’uomo reale, ma quella di una individualità raziocinante, destinata a smarrirsi nelle pieghe del «testo» che oramai coincide con la realtà. Per il postmoderno la realtà è narrazione, costruzione teorico-letteraria dell’intelletto.
Con quali conseguenze?
La vera incertezza che domina oggi e quella dell’incompiutezza nel passare da individuo a persona. Si è perduta l’obbligazione morale, cifra dell’autonomia morale e con essa della trascendenza della persona. Noi siamo reali, siamo carne, ci realizziamo nella realtà e al tempo stesso la trascendiamo nell’obbligazione morale. È questo legame tra verità e realtà che il pensiero moderno oggi ha distrutto.
L’incertezza non ci basta perché nel nostro cuore c’è una certezza, più grande, che la precede.
Vero. Credo però che in tempi come questi san Paolo ci sia ancora molto d’aiuto e possa dare una grossa mano ad Agostino. Nell’escatologia di san Paolo la certezza è realmente fondata, perché c’è il cambiamento nella verità. Sono due approcci che non si escludono.
In altri termini?
La certezza piena prende il suo «sapore» – come dice Esposito – quando è raggiunta nella prassi, il che vuol dire, in breve, nella concretezza della vita. Non c’è bisogno di essere storicisti. Possiamo essere certi della resurrezione della carne, però la certezza è certezza anche nella trasformazione della realtà. Perché se io sono certo, ma la realtà va da un’altra parte, allora non mi serve a nulla superare l’incertezza. Allora preferisco vivere a margine tra certezza ed incertezza. Oggi la certezza non può fare a meno di un elemento di trasformazione. È l’«attualità» della posizione giudaico-cristiana.
Che cos’ha di così diverso?
La redenzione deve cominciare anche su questa terra, con il cambiamento della vita. Se no, francamente, passare dall’incertezza postmoderna della realtà come narrazione alla certezza legata ad un piano salvifico che non riguarda solo la persona ma tutta l’umanità, mi sembra una diminuzione. Come se mancasse qualcosa.
Può documentare quello che sta dicendo?
Oggi i giovani hanno bisogno non di un sogno – lasciamo stare questa parola, figlia ormai dell’universo consumistico -, ma di un impegno trasformatore. Cosa cercavano i giovani a Madrid? Una certezza, non c’è dubbio, ma anche un cambiamento. La certezza o si documenta nel cambiamento o non è. Ed è proprio questa la cosa fondamentale che il pensiero postmoderno nega.
In altri termini, la realtà di cui sono certo mostra la sua oggettività in un impegno trasformatore.
Certamente. Passo dall’incertezza alla «vera» certezza guadagnando non una certezza astratta, ma una certezza che nasce dalle buone pratiche. Mi sembra questo il punto di Archimede per vivere meglio nel presente. Lo dice bene Esposito quando scrive che la certezza non appartiene tanto all’assoluto, ma è piuttosto un accaduto. Se il Fatto cristiano alimenta la mia fede, non mi lascia inerte.
Che cosa la colpisce di più pensando al titolo del Meeting, «E l’esistenza diventa una immensa certezza»?
Quell’immensità, che non deve apparire una semplice aggiunta retorica. Che cosa vuol dire immensa? Che solo la presenza del divino riempie l’esistenza di certezza, sostenendo un cammino debole e incerto. Diciamocelo, siamo uomini tra gli uomini. Siamo pieni di dubbi, non riusciamo a realizzare noi stessi, non riusciamo a fare quello che vorremmo. Vogliamo l’immensità, la stessa agognata da Leopardi nel suo Infinito, ma restiamo tremolanti. Non ne siamo capaci per la presenza del male. Il male è il peccato. Quando citiamo Agostino, non dimentichiamo il lato oscuro, che è quello su cui ha sempre lavorato Pascal: Dov’è Dio, come mai non si mostra, perché mi ha abbandonato? Non dev’essere una domanda oziosa, se anche Cristo se lo è chiesto sulla croce. Il peccato è un evento fondamentale della teologia cristiana, ma siamo portati a razionalizzarlo troppo rapidamente…