L’Italia rischia di trasformarsi in un “Paese per vecchi”. Questa la provocazione di Giorgio Vittadini in un’intervista a Il Corriere della Sera pubblicata alla vigilia del Meeting di Rimini. «Non si parla del motore dello sviluppo – diceva il Presidente della Fondazione per la Sussidiarietà, puntando il dito su un dibattito politico tutto incentrato sui tagli e sulla riduzione del debito -. E non si pensa alla grande risorsa che sono i giovani: una realtà da educare, non da escludere». La discussione sulla manovra, nel frattempo, si è arenata di nuovo sui rapporti di forza che cercheranno di determinare la divisione dei sacrifici.
«Evidentemente a livello politico non passa ciò che tra gli opinionisti e i commentatori è ormai assodato – dice a IlSussidiario.net il Prof. Ernesto Galli della Loggia -. Siamo in molti, infatti, a fare le stesse critiche, ma i politici non sembrano capaci di liberarsi dal ricatto, anche elettorale, dei gruppi organizzati. Quelli cioè che sono in grado di avanzare le proprie richieste in modo organico. La politica, purtroppo, oggi è strutturata solo per ascoltare questo tipo di voci. Chi invece si affaccia sulla scena sociale solo adesso, come i giovani o come chi è disorganizzato (i consumatori, ad esempio) viene tagliato fuori. Non a caso in questo Paese contano molto di più i tassisti dei loro clienti».
Se non si inverte questo processo saranno i giovani a pagare la crisi?
Certamente, su questo concordo con l’analisi di Vittadini. Penso però che servirebbero leader politici e movimenti nuovi che sappiano organizzare i “disorganizzati” e portare la loro voce all’interno dell’arena politica. Purtroppo abbiamo un deficit di cultura politica evidente e penso che questo sia il nostro punto critico fondamentale, anche se non è un problema che riguarda solo l’Italia.
Il Meeting di Rimini di quest’anno sta puntando molto sul protagonismo del popolo emerso, dal basso, durante tutte le crisi attraversate dall’Italia in questi “150 anni di sussidiarietà”. Condivide questa lettura o ritiene che solo una risposta dall’alto ci potrà salvare?
Sono d’accordo, ma con qualche riserva. È vero che l’Italia ha sempre saputo esprimere se stessa e ottenere grandi risultati partendo dal singolo, dalla famiglia e dai piccoli gruppi. Penso però che ci siano anche dei limiti oggettivi.
Un esempio? La ricerca scientifica. Il piccolo non riuscirà mai a farla, spetterà sempre alle grandi istituzioni e alle grandi unità produttive portarla avanti. È su questo però che si giocherà la sopravvivenza delle nostre economie. Altrimenti continueremo a fare occhiali da sole e maglioni di gran classe. Cose importantissime, per carità, ma che qualcuno prima o poi inizierà a produrre a minor prezzo.
Che contributo ha dato al dibattito, secondo lei, l’intervento che il Presidente Napolitano ha rivolto all’Italia dal palco del Meeting?
Anche se non poteva approfondire le cause di questa “paralisi” ha tirato le orecchie sia alla destra che alla sinistra.
Da un lato ritengo che sia giusto illustrare i deficit della politica, dall’altro però sarebbe il caso di iniziare a rivolgere qualche critica alla società italiana, anche se questo rende impopolari.
Che tipo di critiche?
È vero, ad esempio, che se non c’è un accertamento fiscale efficace è colpa della politica, ma è altrettanto vero che a non pagare le tasse sono gli italiani. La stragrande maggioranza di loro non sembra avere senso civico e la società sembra diventare sempre più cinica, corrotta e materialista.
Anche questo andrebbe detto, perché i politici non nascono sotto i cavoli.
Guardiamo alla società. Negli ultimi 15 anni non c’è stato un solo libro che abbia dato qualche indicazione valida su come dovesse cambiare e migliorare. Questo compito non spettava certo ai politici, ma probabilmente alle persone come me. Nessuno, evidentemente, è stato all’altezza del suo compito.
Ma se questo secondo lei è il quadro della società italiana, da dove si riparte?
Non me lo chieda. Lasciamo la domanda aperta, perché è quella fondamentale.
A mio avviso, comunque, c’è un rapporto stretto tra questa situazione e la crisi dell’istruzione. Negli ultimi vent’anni, infatti, noi italiani (e non parlo dei politici) l’abbiamo distrutta.
I nostri giovani escono dalla scuola con una preparazione sempre più scarsa e i pochi che hanno successo scappano all’estero. Ma, ancora più grave, è proprio la società a non attribuire grande importanza alla conoscenza e alla cultura, perché è convinta che le raccomandazioni e le amicizie contino di più.
Insomma, il nostro non è un Paese per giovani e non è nemmeno lontanamente meritocratico.
A questo punto si può soltanto ripartire dal soggetto, dalle famiglie, dalla coscienza collettiva del Paese, anche se a volte è la società ad appoggiare scelte sbagliate.
A cosa si riferisce?
Se questo Paese continuerà a pensare che sia più importante assumere decine di migliaia di precari piuttosto che mettere fine allo scandalo dell’istruzione in Calabria, dove i licei regalano 100 e lode a tutti, non avrà nessun futuro.
(Carlo Melato)