Il profilo demografico del Bacino Mediterraneo è profondamente cambiato nell’arco di pochi decenni. I poco più di 400 milioni di africani – di cui un quinto in paesi affacciati sul Mediterraneo – che erano presenti a metà degli anni ’70 hanno ormai superato il miliardo. Oggi l’Africa sopravanza l’Europa di ben 300 milioni di abitanti ed anche tra le due rive del Mediterraneo il primato dei paesi della sponda Sud è ormai una conquista irreversibile.
Tuttavia ciò su cui oggi conviene attentamente riflettere non riguarda il passato, bensì gli scenari che ci aspettano a Sud del Mediterraneo nei prossimi decenni e, soprattutto, l’eventualità che alle tradizionali fonti di squilibrio cui da tempo ci siamo assuefatti – dalle guerre alle calamità naturali, alle sommosse sino ai contrasti etnici e religiosi – si possa aggiungere il contributo del cambiamento demografico. L’attenzione va rivolta non solo al consueto – e talvolta esageratamente enfatizzato – tema della crescita numerica della popolazione, ma anche all’effetto di talune sue trasformazioni qualitative: prime fra tutte quelle legate alle variazioni nella struttura per età.
In particolare, sarebbe interessante indirizzare il ragionamento sia sulla reale portata del vincolo che la crescita demografica porterebbe allo sviluppo del Sud del Mondo, sia sul fatto che “il tipo di crescita” che il continente africano ha davanti a sé avrebbe anche elementi che, ove adeguatamente sfruttati, potrebbero persino rappresentare un fattore di sviluppo. Oltre ad una doverosa rivisitazione dello stereotipo del fardello demografico nel Sud del Mondo – se è vero che non più tardi di qualche mese fa la stampa, commentando dati Ocse, titolava “L’Africa corre più della crisi” (Il Sole 24 Ore, 20 giugno 2011) – sembra importante capire se e a quali condizioni le dinamiche della popolazione, oltre a non essere sempre e necessariamente un vincolo, potrebbero trasformarsi in un punto a favore dei popoli che le determinano e ne sono coinvolti. In tal senso i dati sulla struttura per età risultano particolarmente eloquenti là dove attestano le macroscopiche differenze di vitalità, tra un’Europa in cui gli anziani hanno già sopravanzato i giovani e un’Africa dove questi ultimi sono tuttora ben undici volte più numerosi.
È dunque dal dato sulla popolazione in età attiva che conviene avviare la riflessione circa la sfida per la valorizzazione del capitale umano nei paesi del Sud del Mondo, unica strategia capace di mantenere condizioni di equilibrio negli scenari che vanno configurandosi. Tra il 2010 e il 2030 del circa mezzo miliardo di unità che si aggiungeranno al totale degli africani, ben 2/3 sarà rappresentato da soggetti in età lavorativa, e nel Nord Africa tale proporzione sarà ancora più elevata (77%). Mentre oggi in Africa il rapporto di dipendenza – detto anche di carico sociale – è di 78 persone a carico (per lo più giovani) per ogni 100 soggetti in età attiva, si prevede che nell’ambito della componente che si aggiungerà nei prossimi vent’anni il suddetto rapporto sarà sceso a 50.
Non vi è dubbio che un tale allentamento del carico sociale – che viene visto come se fosse un “dividendo demografico” maturato per la favorevole coincidenza di un calo tendenziale della componente giovanile non ancora accompagnato da un aumento di quella anziana – si configura nei termini di una vera e propria grande occasione di sviluppo per il continente africano. Un’opportunità che, per essere colta, richiede tuttavia la sussistenza (o meglio la realizzazione) delle condizioni – economiche, sociali, politiche, infrastrutturali – necessarie per mettere a frutto l’abbondante capitale umano che si renderà sempre più disponibile in loco.
Per giungere a condizioni che consentano alla popolazione africana di incassare il “dividendo demografico” sarà però indispensabile uno sforzo – e un costo certo non indifferente – sul fronte di una vera cooperazione da parte dei paesi del Nord del Mondo, prima fra tutti l’Europa. D’altra parte non va dimenticato – e le recenti esperienze in Nord Africa ce lo hanno chiaramente ribadito – che l’alternativa ai costi di azioni mirate alla salvaguardia degli equilibri mondiali (ma anche a rispondere ad un dovere sul piano etico) consiste nel lasciare che tutto proceda nel segno dell’arrangiarsi da sé. Nell’illusione che, così come la versione della bomba demografica sul piano dei “numeri” non è esplosa con effetti dirompenti, anche la sua variante qualitativa, connessa agli effetti della struttura per età, potrebbe passare sulla testa dei paesi ricchi senza alcun significativo danno.
In proposito vale però la pena di ricordare come già nell’ultimo ventennio l’Africa sub-sahariana abbia complessivamente esportato altrove circa 15 milioni di abitanti 15-49enni e come, analogamente, il Nord Africa abbia pagato un tributo di 4 milioni di giovani emigrati. In prospettiva, nel prossimo ventennio si segnala l’esigenza di fronteggiare, nel complesso dell’Africa, un surplus tra potenziali ingressi e uscite dal mercato del lavoro che sarà nell’ordine di venti milioni di unità annue, per il 90% localizzato nei paesi della regione sub-sahariana. È realistico immaginare che, in assenza di qualsiasi azione volta ad accelerare lo sviluppo locale, la valvola di sfogo di una tale pressione sia unicamente l’emigrazione? E poi, verso quali paesi? Se anche si mette in conto il deficit annuo di circa 2 milioni di unità prospettato per l’Europa, come si può pensare che il gioco dei vasi comunicanti possa realisticamente arginare una pressione dal Sud come è quella che potrebbe ventilarsi? Per altro espressa da popolazioni – giovani, sempre più istruite e con una crescente parità di genere – che hanno piena consapevolezza dell’esistenza di “un altro mondo”.
La dura legge dei numeri offre dunque valide argomentazioni per ricordarci che la sfida che viene dal Sud va necessariamente affrontata attraverso strumenti che promuovano lo sviluppo nello stesso Sud. E se è vero che qualche segnale incoraggiante sul piano della dinamica economica sembra si stia registrando, è anche vero che molto ancora va fatto per valorizzare pienamente il capitale umano del continente africano.
È solo attraverso adeguate forme d’investimento e con efficaci iniziative di formazione – anche sviluppando e organizzando in modo funzionale il fenomeno delle migrazioni circolari – che il “dividendo demografico” potrà venire finalmente riscosso a beneficio di coloro che ne hanno legittimamente titolo.