La crisi in cui versa l’Italia, insieme con gli altri paesi avanzati, si presenta con i tratti drammatici tipici dell’interruzione della crescita: economica, demografica, spirituale. Il che è, in prima battuta, paradossale: guardando alle nostre spalle, in fondo, in questi anni non  si era  parlato d’altro. Come occidentali, figli di una storia secolare di libertà, siamo “condannati” a crescere, dato che abbiamo liberato il genio della lampada di milioni di individui. La crescita altro non è che la traccia più evidente, anche se misconosciuta, della vocazione trascendente dell’essere umano, il quale è incapace di stare fermo, immobile, senza vita. Prova inconfutabile della natura dell’uomo come essere desiderante.



Per questo, ogni  società è, nel suo fondo, retta da una particolare struttura del desiderio. Il potere – nel suo lato proiettivo e non repressivo – ne definisce la forma. Ci sono società più spirituali o più materiali, più religiose o più secolarizzate, più individualistiche o più collettive. Ma tutte ruotano attorno a questo nodo.



Noi viviamo in un tempo in cui la proposta di fondo è stata quella di ridurre il desiderio a godimento. E cioè, il modello predicato è stato individualistico, materialistico, laico, immanente, appropriativo. Dove la tecnica e i media hanno costituito le due infrastrutture fondamentali.

Gli esiti, tuttavia, sono ambivalenti. Da un lato, è innegabile l’aumento delle opportunità su una scala mai vista: si pensi all’allungamento della vita media o al miglioramento del livello di vita di decine di milioni di persone. Dall’altro, ci sono segni evidenti di fallimento: l’accumulo generalizzato di debiti, l’aumento delle disuguaglianze, la diffusione della depressione come malattia sociale, l’assenza di senso e la percezione di incertezza. La crisi dunque è profonda. Siamo di fronte ad un passaggio difficile, anche perché si tende a non ammetterne la portata.



Il problema è che, reso godimento, il desiderio ha un esito distruttivo. Di sé e del mondo. Il desiderio reso appropriazione si spegne e ammazza la vita stessa. Il dominio, infatti, è la  tomba del desiderio: per fare il mondo come lo vogliamo, lo facciamo sparire. Incorporazione e rimozione sono due movimenti tipici del nostro tempo. Il desiderio reso godimento favorisce un’ espansione del sé che non incontra mai la realtà – semplicemente perché la si fa coincidere con la propria proiezione.

Di fronte ai rischi della crisi, si deve parlare di crescita. Ma lo si deve fare essendo “realisti”. Le condizioni del modello di sviluppo che ha prevalso negli ultimi tre decenni  non ci sono più. I paesi occidentali, invecchiati, indebitati, depressi non possono più essere mobilitati dal desiderio reso godimento. E d’altra parte, i rapporti economici globali sono profondamente cambiati. Alla spalle di tutto ciò vi sta lo sfaldamento di uno dei presupposti centrali del nostro tempo, e cioè l’idea  semplicistica che ciascuno sia padrone del proprio senso.

Ciò di cui si deve parlare oggi è un alto tipo di crescita. Per questo occorre costruire un nuovo immaginario della libertà. Come adolescenti abbiamo pensato che essere liberi volesse dire che ciascuno semplicemente fa quello che vuole, ribellandosi ad ogni forma di autorità. Ma questo pensiero è ormai inadeguato.

Oggi, noi abbiamo la possibilità di rilanciare sul futuro a condizione di essere capaci di ridire la nostra idea di libertà.

Il desiderio ha a che fare con l’incontro. In questo senso, abbiamo bisogno di un’espansione che non ci faccia rifuggire dalla realtà e dalle sua domande, ma ci permetta di essere alla ricerca, e in qualche modo di riconoscere e di incontrare, l’A/altro.

A me piace chiamarla libertà generativa. Una libertà, cioè, che si riconosce dentro una storia, che rispetta e ama anche quando ne prende le distanze; che si pone in relazione agli altri e al mondo, riconoscendoli e prendendosene cura;  che ha il coraggio di assumersi il rischio di spendersi per un bene che vale la vita, imparando che senza sacrificio nulla di buono può esistere; che riconosce il mistero  dell’esistere e lo attraverso con coraggio.

E’ qui che i giovani possono e devono fare molto: collocandosi dentro una storia, ma avendo anche il coraggio di una novità che può – ed anzi deve – cambiare, ancora una volta, il mondo. Se affrontiamo i numeri implacabili della crisi con gli schemi di lettura di questi anni, lo spazio per l’ottimismo non c’è. Tutto diverso è, invece, se guardiamo alla transizione in corso come un’occasione grande, per questa nuova generazione, di  fare emergere un nuovo desiderio di Vita che il nostro tempo sembra soffocare.

Non c’è crescita senza sviluppo. Non c’è sviluppo senza spirito. Non c’è spirito senza apertura. Non c’è apertura senza Dio.