Anch’io ho perso sette chili. E senza tisane e centrifugati strani, cosa che dà l’idea infingarda di un modello nuovo da seguire. In verità il problema non è dimagrire, bensì mantenersi nel tempo. E questo vale per la salute di una persona come per quella di un Paese (oggi in ostaggio di una trattativa che i giornali, per definirla, sono andati a sfruculiare nel lessico dell’enogastronomia politica: Il “patto dei rigatoni” (La Stampa) e la “manovra delle Bollicine” (Repubblica). Come ho fatto a perdere sette chili ? Con la moderazione, seguendo i prodotti di stagione e, anche, in verità, dissociando i carboidrati (a mezzodì) dalle proteine. Non ho dovuto eliminare totalmente il vino e il pane, come taluni sostenevano, non ho dovuto rinunciare al mio mestiere, che è quello di assaggiare. Ma la cosa che più mi ha sorpreso è che il risultato, unito a un sano movimento tiene, per la prima volta tiene. Ora, il tema delle diete è all’ordine del giorno dei quotidiani e dei settimanali appena dopo le vacanze. E i consigli si sprecano, senza considerare mai il gusto. La dieta allora diventa una cosa innaturale, anche quella berlusconiana, che elimina il piacere, mentre la dieta vera è una tensione al gusto, anziché un sacrificio a priori come si è soliti pensare. Tuttavia, anche per uno che per mestiere mangia la principale difficoltà, sembra assurdo, è trovare un pomodoro o un frutto di stagione al ristorante o al bar. A Rimini ho girato per una via intera senza trovare ciò che desideravo e solo una volta tornato a casa mia ho trovato i fichi del mio giardino e i pomodori dell’infanzia, quei “cuore di bue” da irrorare con un olio extravergine di oliva, un poco di basilico e un tocco di sale. Nei ristoranti è difficile che te li servano (e la fattura di acquisto ?) così come difficile è avere un’insalata di cicorino tritata fine che risulta assai più buona dell’invadente rucola. Il cicorino, poi, si sublima con un buon aceto di vino rosso (a proposito di aceto, è uscita anche la notizia che quello di mele sarebbe un elisir di lunga vita). Sul mio libro per la famiglia “Adesso, 366 giorni da vivere con gusto”, leggo che in una città degli Stati Uniti c’è il monumento a un certo Michele Felice Corne: il primo americano che osò mangiare un pomodoro sfidando la convinzione che fosse velenoso! “In effetti – scrive la brava Paola Gula – anche in Europa questo frutto giunto dal Perù, piccolo, di colore giallo (“pomo d’oro”) e molto acido, fu accolto con grande diffidenza e considerato solo ornamentale. Nel 1600, quando era già diventato rosso, qualche coraggioso del sud Italia lo assaggiò in insalata.
Nel 1773 Vincenzo Corrado nel trattato “Il cuoco galante” consigliò di metterlo nello stufato di verdure, ma solo nel 1839 Ippolito Cavalcanti, duca di Bonvicino, lo usò per condire la pastasciutta. È del 1840 la famosa ricetta di Niccolò Paganini di ravioli alla genovese con salsa di pomodoro, mentre la prima citazione del felice matrimonio con la pizza napoletana è nel Grande dizionario di cucina di Alexandre Dumas. Intanto, nel 1853, il pomodoro aveva conquistato l’alta cucina francese, comparendo a un pranzo di gala della corte di Napoleone III”.
Ebbene, dopo tutto questo excursus storico, oggi l’unica speranza per mangiare un pomodoro come si deve è quella di conoscere un vicino che ce lo doni, staccato direttamente dalla pianta.
Altrimenti passa una stagione e il pomodoro rimane una chimera, così come il cicorino. Il primo, al massimo sarà quello anemico e straconservato che trovi nelle buste già confezionato, il secondo ha cambiato nome: rucola, eternamente rucola.