Una donna 48enne di Treviso, con una malattia degenerativa rarissima, ha chiesto al giudice di non essere sottoposta a cure salvavita nel caso in cui dovesse rischiare la morte. E il giudice tutelare di Treviso, Clarice di Tullio, le ha dato ragione, sulla base della Costituzione e della convenzione di Oviedo. La donna, testimone di Geova, in passato aveva rifiutato la trasfusione e la tracheostomia, cioè la tracheotomia permanente. Ilsussidiario.net ha intervistato Marco Olivetti, ordinario di Diritto costituzionale all’Università di Foggia. Per l’esperto, quello della donna di Treviso «è in parte diverso da quelli di Welby e di Englaro, perché sembrerebbe rientrare nell’ambito del diritto a rifiutare le cure che è già riconosciuto dall’ordinamento italiano. Per quanto la scelta della paziente 48enne sia discutibile dal punto di vista etico, la decisione del giudice di Treviso non presenta quindi eccessivi elementi di novità. Alcuni anni fa infatti ci fu un episodio che riguardò una signora che, rifiutando l’amputazione di una gamba, andò incontro a conseguenze mortali, ma i magistrati non poterono fare nulla per impedirglielo. Non vedo differenze particolari rispetto a questo caso».
Molto diversa invece per Olivetti è la vicenda di Eluana Englaro, che non può essere confrontata in alcun modo con quanto accaduto: «In quel caso i magistrati si trovarono a dover decidere su una richiesta di interruzione di cure che, innanzitutto, non proveniva dalla persona alla quale le cure erano praticate, e poi non si trattava di vere e proprie cure bensì di alimentazione e idratazione. E in terzo luogo si trattava di interrompere trattamenti che erano in corso, mentre nel caso di Treviso sono cure che devono ancora essere iniziate. Quest’ultimo quindi lo valuterei come un caso che, per quanto molto critico dal punto di vista umano, oltre che un po’ limite, è diverso sia dal punto di vista etico che giuridico dagli altri che abbiamo visto finora». E sulle parole del ministro Maurizio Sacconi, che ha accostato la vicenda al suicidio assistito, Olivetti ritiene che vada presa in considerazione una serie di sfumature diverse: «Il suicidio assistito è un’altra fattispecie, che richiede un intervento positivo che cambio lo stato delle cose. Mentre in questa vicenda la donna ha chiesto che le sia garantito un “intervento meramente negativo”, cioè un’astensione dalle cure, e quindi non mi pare che rientri nell’ipotesi del suicidio assistito. Il problema piuttosto è se ci avviciniamo a quell’ipotesi intermedia che è l’eutanasia passiva, cioè il lasciare morire. Ma anche il lasciarsi morire è ancora una cosa diversa dal rifiuto delle cure».
L’aspetto problematico è invece un altro: «Qui il rifiuto è anticipato, è ora per allora. E quindi l’obiezione potrebbe riguardare l’efficacia concreta della decisione del giudice qualora la signora sia ricoverata in ospedale su decisione di un parente e quindi si debbano praticare normali accorgimenti medici richiesti dal caso. Ma anche al di fuori di tutte le polemiche degli ultimi anni, nessuno può andare a prendere una persona a casa sua, tradurla in ospedale contro la sua volontà e la volontà di chi la assiste e sottoporla a cure alle quali né la persona interessata, né i suoi cari sono favorevoli. Ben diverso il caso in cui si richiede una determinata cura e questa è già iniziata, e in un secondo momento si reclama un intervento in qualche modo positivo per interromperla. In questo caso entriamo nel suicidio assistito, come nel caso Welby, o addirittura in una fattispecie ancora più complicata come nel caso Englaro». Difficile comunque che il disegno di legge approvato dalla Camera dei deputati, e che dovrà essere ancora approvato dal Senato e poi promulgato dal presidente della Repubblica, possa entrare nel merito della vicenda della signora di Treviso. Come sottolinea Olivetti, «il progetto di legge si occupa sempre e soltanto di casi in cui la persona non sia capace di intendere e di volere, disciplinando le pratiche mediche che avvengono nell’ambito di un rapporto terapeutico. La legge non prevede, e mi sembra che non possa neanche farlo, che se questo rapporto terapeutico non c’è, un medico possa ordinare di andare a prendere una persona a casa, portarla in ospedale e curarla».
(Pietro Vernizzi)