“Non tutti hanno il dono di fare l’alpinista o l’esploratore” diceva Walter Bonatti. Le stesse esperienze che faceva lui uno le può e le deve fare anche quando sta aspettando il tram alla fermata: la vita è una e le esigenze del cuore sono uguali per tutti, non è questione di protagonismo. A citare queste parole è Marco Berchi, giornalista, ex direttore della rivista Qui Touring che ha avuto la fortuna di conoscere e frequentare Walter Bonatti, scomparso oggi all’età di 81 anni. “Il nome di Bonatti” ha detto Berchi in questo ritratto esclusivo dell’alpinista scomparso a IlSussidiario.net “rimarrà legato sempre al mondo dell’alpinismo, di cui fu realmente uno dei più grandi esponenti di tutti i tempi. Ma in realtà lui fu molto di più: fu l’ultimo esploratore, di quella razza che annovera gli Amundsen, gli Scott, gli esploratori marini del seicento e settecento”. Esagerazioni? Non per Berchi, che sottolinea l’incredibile apporto di Bonatti fatto in campo di reportage esclusivi da ogni angolo del mondo, in tempi in cui muoversi non era facile come oggi per via dei mezzi a disposizione: “Nella seconda fase della sua vita, quando ancor giovane a 35 anni decide di lasciare il mondo ufficiale dell’alpinismo, nel pieno delle forze fisiche e della notorietà, lui si muove da solo e ridisegna il suo rapporto con la natura che era la montagna, ampliandone l’orizzonte. Ho conosciuto e visto un uomo con grande sete di conoscenza che ha incontrato nel mondo dei media gente che lo ha capito e lo ha valorizzato. Grazie a Bonatti nasce l’epopea di Epoca, un giornale fatto di reportage fotografici esclusivi che la generazione di chi ha oggi sessant’anni ricorda come il giornale di cui si aspettava l’uscita con trepidazione”.
Ma il nome di Walter Bonatti rimane anche legato all’episodio della conquista del K2, una polemica che si è trascinata per decenni anche con risvolti pesanti: “Non è la vicenda principale della sua vita” spiega Berchi “ma sicuramente quella che lo ha segnato e fatto soffrire di più. Bisogna tener conto nell’affrontare questo episodio che allora le spedizioni non erano come quelle di oggi, che sono così informali, easy, con l’alpinista che si cerca da solo lo sponsor. Allora si trattava di spedizioni quasi militaresche, di rappresentanza patriottica, infatti quella sul K2 era la spedizione ufficiale del Cai. C’era una gerarchia interna, ma le cose allora funzionavano così ad esempio anche per i francesi e i tedeschi. Bonatti era il più giovane di tutti e dovette sottostare anche a un certo tipo di mobbing che avveniva all’interno del gruppo. La spedizione era comunque improntata a criteri militari di disciplina”. Il famoso episodio delle bombole e del campo che Bonatti non riuscii a trovare? “Bonatti era di rincalzo, doveva portare insieme a una guida locale le bombole di ossigeno che sarebbero servite il giorno dopo a Compagnoni e a Lacedelli per arrivare sulla vetta. Ma non trovarono il campo e passarono la notte, all’aperto, a 8400 metri di altitudine e con 50 gradi sotto zero, condizioni mortali. Riuscirono a scamparla e il giorno dopo tornarono a valle, mentre Compagnoni conquistava la vetta. E da quel momento le versioni si differenziano. Compagnoni dirà che Bonatti aveva usato parte dell’ossigeno, costringendoli ad arrivare in vetta senza di esso. Alcuni giornali scrivono che Bonatti avesse cercato di superare Compagnoni per arrivare in vetta per primo. Dopo anni di denunce, e di libri scritti da Bonatti per dimostrare la sua verità, arriverà solo pochi anni fa la sentenza di una commissione ufficiale del Cai che darà ragione a Bonatti. In essa si ammette che Compagnoni avesse volutamente nascosto il campo in una diversa posizione per non farlo trovare a Bonatti in modo che non arrivasse prima sulla vetta. “Ma la sua vita era ormai rimasta segnata da quell’episodio”.
Perché Bonatti lascia a soli 35 anni di età? “Perché intravvede in Reinhold Messner il suo erede, il giovane emergente che per approccio e cultura può essere il suo erede, l’alpinista che come lui ha rispetto e lealtà verso la montagna, anche se poi negli anni si pentirà di questa scelta, quando lo vedrà troppo coinvolto con il mondo degli sponsor, ma i rapporti tra i due rimarranno sempre ottimi”. Come definire Walter Bonatti, dunque? “Un uomo che ha sempre avuto il massimo rispetto per la natura, attento ai mezzi che usava, con un approccio leale nei suoi confronti. Un uomo che ha fatto imprese straordinarie, come quella che segna la fine della sua carriera, la prima salita invernale in solitaria sul Cervino. Uno scrittore autodidatta i cui libri hanno segnato non solo la letteratura alpinistica, ma la letteratura in generale, penso a opere come Le mie montagne e I giorni grandi, che sono dei classici”.
Brecchi ricorda poi un episodio che lo colpì molto, quando, giornalista de il settimanale Il Sabato, si trovava nella stessa tipografia dove stavano stampando un libro di Bonatti che conteneva le sue dichiarazioni sull’episodio del K2. Un autentico scoop, lo definisce. Per correttezza, chiama Bonatti al telefono e gli dice quello che ha letto. Bonatti risponde che può fare come vuole, ma preferirebbe che non scrivesse nulla fino a quando il libro non venisse pubblicato. Così farà, e Bonatti lo chiamerà per dirgli che nessun altro giornale avrebbe fatto lo stesso di quanto fece Il Sabato in quell’occasione. Da lì nasce una amicizia personale in cui Berchi si spinge a chiedere risvolti anche intimi: “Una volta gli chiesi se era credente, la classica domanda che si fa agli alpinisti, se quando era solo in parete pregasse. Lui disse di no e magari a volte era anche irriverente quando definiva la preghiera una superstizione. Ma era evidente che per quello che aveva vissuto avesse una coscienza del limite dell’uomo e del mistero dell’uomo di fronte alla realtà. Quello che a me colpiva di Bonatti era questa serietà con la propria umanità e con quello che della propria umanità viene fuori in situazioni più estreme”. Come avrebbe detto in una intervista di pochi anni fa: “Ho scoperto che l’uomo è pieno di sorprese, e anche di contraddizioni. Ci ho molto pensato. Ma in realtà il mio viaggio non è mai finito. Non esiste un termine. Al fondo di tutto c’è l’universo, l’immensità. Chissà fin dove può arrivare… A volte mi è sembrato davvero di essere riuscito a dare uno sguardo al di là della dimensione in cui siamo calati. Certo, è difficile da spiegare. Ma in fondo è bene che un po’ di mistero rimanga: guai a distruggerlo, rovineremo il senso della vita. E poi il mistero era e rimane un invito alla scoperta”.