Kurt Diemberger, classe 1932, è quasi coetaneo di Walter Bonatti, che si è spento martedì sera a 81 anni. In questa intervista il grande alpinista austriaco, primo salitore di due ottomila, il Broad Peak, nel 1957, e del Dhaulagiri, nel 1960, ricorda Bonatti. È toccato a noi dargli la notizia questa mattina (ieri, ndr), quando lo abbiamo chiamato al telefono, per raccogliere, dalla voce di uno degli ultimi «grandi» rimasti, il ricordo di uno dei maggiori alpinisti di ogni tempo. «È morto Walter…?». Trasale, sorpreso, Diemberger. Una pausa di silenzio. Per raccogliere le idee, andare col pensiero a quell’uomo simbolo di un’epoca, forse dell’«alpinismo» con la a maiuscola, sia per intere generazioni di appassionati, sia per tutto coloro che lo hanno conosciuto negli anni in cui le grandi imprese di montagna, non ancora retrocesse a semplici, se pur grandi salite, finivano ancora nelle cronache nazionali. Oggi non è più così. Di quegli anni, ormai, Walter Bonatti scriveva nei suoi libri, fissando nella sua prosa suggestiva, tutta fatta di cose viste, il fascino di esperienze che oggi, in un mondo «postmoderno» di cui già si decreta la fine, vanno perdendo il loro significato. Il suo, dice Diemberger in italiano, ma cercando le parole in tedesco, era «un viso – come dire, offen, sì. Aperto, sincero».



Che ricordo ha Kurt Diemberger di Walter Bonatti?

Ricordo di averlo visto per la prima volta a una conferenza, a Varese, negli anni 50. Avevo sentito parlare di lui, mi colpì la sua precisione, la tranquillità del suo spirito. Mi ricordo ancora il titolo della serata, dedicata a «Le 17 vie della Brenva» (un settore del versante orientale del Monte Bianco, con itinerari di roccia e ghiaccio alti più di mille metri, ndr). Le aveva ripetute, quasi tutte insieme a Cosimo Zappelli, e ne spiegò ogni dettaglio. Ebbi subito l’impressione di lui come di un uomo di grandissima (Diemberger indugia, cerca le parole in tedesco, ndr) grinta, di… – come posso dire – di «spinta». Sì, rimasi colpito dalla sua energia, dalla sua spinta.



…un uomo di grandissima tempra?

Sì, forse in italiano è più corretto. Sempre pronto ad aiutare. Ricordo che nel 1963 in compagnia di altri alpinisti, tra cui mia moglie Tona, rimanemmo bloccati sulla cresta sud dell’Aiguille Noire. Capitammo dentro una serie di temporali, violentissimi a quella quota, che ci fecero penare per cinque giorni. Eravamo in discesa, ma ci sarebbe voluto ancora un tempo interminabile. Fu allora che dalle nebbie apparve Bonatti, insieme a Zappelli e Giorgio Bertone.

Erano venuti a prendervi?

Sì, dopo giorni che non si sapeva più nulla di noi, si erano buttati nella tempesta. Avevano allestito una serie di corde fisse per agevolare la nostra discesa. Mia moglie Tona aveva preso un fulmine in testa, ma il casco l’aveva salvata e se l’era cavata con una grossa scottatura sulla faccia. Ho poi avuto modo di sdebitarmi con Walter…



In quale occasione?

Lui e Carlo Mauri nel ’58 fecero la prima ascensione del Gasherbrum IV (7980 metri, nel Karakorum, ndr). Nessuno aveva potuto vedere bene quella montagna dal lato dal quale Bonatti e Mauri volevano scalarlo, tutti la conoscevano dal versante che dà sul Ghiacciaio Baltoro. Ma io, dalla cima del Broad Peak raggiunta l’anno prima con Hermann Buhl, feci le foto del Gasherbrum, e le diedi a Walter. Quelle foto valevano una esplorazione, e permisero a Bonatti e Mauri di individuare a colpo sicuro dove scalare.

Quando si sono toccate di nuovo le vostre strade?

Un altro ricordo che mi lega a Bonatti è quello di Hermann Buhl. Eravamo diretti verso il Chogolisa, nel 1957. Hermann aveva lasciato i suoi diari nella piccola tenda dell’ultimo campo, a 6.700 metri. Buhl precipitò, a causa della nebbia, durante la discesa… ripercorsi le sue tracce, ma non raggiunsi più la tenda. Nel ’58 però i giapponesi riuscirono a ritrovarla, e diedero i diari a Walter. Buhl scriveva in presa diretta, con una calligrafia difficilissima da decifrare. Bonatti li diede alla vedova, e lei a me. Un documento straordinario era stato ritrovato.

«Le grande montagne hanno il valore degli uomini che le salgono, altrimenti non sarebbero altro che un cumulo di sassi». Sono parole di Bonatti. Che ne pensa?

Sì, è così! Senza gli uomini le montagne hanno un loro significato per il fatto di esistere, ma la loro più autentica esistenza è quella che sta in noi, nel nostro cuore, nell’animo di chi le scala. Com’è triste, oggigiorno, vedere che le cime, soprattutto le grandi montagne, sono diventate il più delle volte solo un numero. Certamente non era così per Walter.

I tempi cambiano, l’alpinismo di Bonatti non è più quello di oggi.

È vero: purtroppo non è più lo stesso. Se uno vuol fare i 14 ottomila, non so se ognuno di essi sia per lui la «grande montagna» o solo, in fondo, il numero di una serie. Oggi si scalano montagne per fare un record. In questo modo, però, il vero obiettivo non è più la montagna, ma il record di chi corre! La stessa cosa vale per il dominio della montagna con mezzi tecnici. Rende tutto più facile, ma abbassa la montagna alla nostra misura. E quella che sembra una vittoria, in realtà è la nostra sconfitta.

Lei, in un suo famoso libro dedicato al K2, accosta a quella montagna la parola «Schicksal», destino: K2 Sogno e destino. In che senso una montagna può essere il destino di un uomo?

Nel caso di Bonatti, Walter era certamente in grado di fare la vetta (nel 1954, Bonatti si sacrificò per consentire a Compagnoni e Lacedelli la prima salita, ndr). Forse avrebbe potuto farla anche senza respiratori. Avrebbe meritato di essere tra i primi, ma tutto, ahimè, è venuto a dipendere dallo spazio di una tenda. In una tenda così piccola, se stai troppo stretto,  il giorno dopo non sei in grado di attaccare la vetta. Questo è stato vero anche per Julie e me (Julie Tullis, forte alpinista britannica, compagna di Diemberger nella spedizione al K2 del 1986, ndr), quando perdemmo un giorno buono sulla Spalla. Quel giorno perduto ci consegnò nelle braccia della tragedia.

Lei in montagna ha perso degli amici: Hermann Buhl, la stessa Julie Tullis. Però non ha mai smesso di andarci. Perché?

Perché sono, appunto, un destino. Sono la mia vita, non potrei vivere senza il pensiero delle montagne. Il K2 per esempio sprigiona una magia, lascia quasi vittime di una ipnosi. È il richiamo della montagna, chi non lo sente non capisce. È un fascino che emana dalla forma. Anche per Walter è certamente stato così. Lo dicono tutti i suoi scritti.

Qual è la sua immagine ideale di Bonatti?

No ho una sua immagine ideale. Vedo il suo viso con gli occhi aperti verso una meta, semplicemente. Lo ricordo molto bene. Un viso – come dire, offen, sì. Aperto, sincero.

(Federico Ferraù)