Il ddl 2657 sul “processo lungo” – presentato con le firme di esponenti di Lega, Pdl, Di Pietro – è stato approvato dal Senato lo scorso agosto. Ora è alla Camera, in attesa di riprendere il 25 settembre l’iter parlamentare. Ed è probabile che acceleri, dopo che l’inchiesta su Tarantini che vede coinvolto il premier Berlusconi è passata da Napoli a Roma. Il provvedimento è stato così ribattezzato perché permette agli avvocati difensori di escutere i testi: l’imputato ha la possibilità di chiedere al giudice che siano interrogati tutti coloro che rendono dichiarazioni a suo carico, e di ottenere la convocazione di testi a difesa nelle stesse condizioni dell’accusa. In pratica, la difesa ha la possibilità di ascoltare un sacco di testimoni. Allungando, di molto, i tempi del processo.
Ma non c’è solo questo nel ddl processo lungo. Esso infatti contiene anche alcune novità sul regime di detenzione. Il ddl infatti prevede un inasprimento dell’esecuzione penale, escludendo dal percorso di rieducazione i condannati che hanno commesso reati gravissimi. Solo dopo un periodo pari ai due terzi della pena, o pari a 26 anni se condannati all’ergastolo, quest’ultimi potranno accedere al trattamento di reinserimento. In altre parole, per questi ci sarebbe una rilevante riduzione dei benefici previsti dalla legge Gozzini nell’ambito del percorso rieducativo della pena. Viene da domandarsi se un provvedimento come questo non sia in contrasto con l’articolo 27 della Costituzione, in base al quale la pene deve tendere alla rieducazione del condannato. Ilsussidiario.net lo ha chiesto a Giovanni Tamburino, magistrato di lungo corso e presidente del Tribunale di Sorveglianza di Roma.



Come giudica le nuove norme inserite nel ddl «processo lungo» relative ai detenuti?

Queste disposizioni si trovano nel comma ottavo di un unico articolo e quindi sono in una posizione che definirei singolare perché l’articolo 1 è dedicato a disposizioni di carattere processuale, mentre quelle di cui parliamo attengono all’esecuzione della pena.



Cosa vuole dire?

Che da un punto di vista tecnico è una collocazione impropria e direi stravagante rispetto alla materia. Sto facendo una valutazione tecnica che non guarda ancora al contenuto. E però c’è una tecnica di buona legislazione che suggerisce di tenere distinte le materie per ottenere la chiarezza che un testo di legge deve sempre assicurare.

Ma è solo una questione tecnica o è una scelta politica aver orientato così il dispositivo?

Non mi compete una valutazione di carattere politico. Preferisco attenermi al dato documentale. Questa parte dell’articolo 1 non ha nessuna attinenza con le altre parti.



Andiamo nel merito del comma otto. Vede un possibile contrasto con l’articolo 27 della Costituzione?

Il comma contiene due disposizioni, di cui la seconda riguarda gli omicidi aggravati, la prima riguarda alcuni reati come la strage per ragioni di eversione, il sequestro di persona a scopo di estorsione e il sequestro di persona semplice. Si tratta in tutti due i casi di reati gravissimi, per i quali è legittima la preoccupazione che la quantità di pena che viene irrogata ed effettivamente eseguita non scenda sotto determinati livelli. È un tratto comune anche a molti altri paesi, basti pensare a quello che è accaduto in l’estate scorsa in Norvegia. Ciò che a mio avviso può andare contro l’articolo 27 comma 3 della Costituzione è la rigidità eccessiva del dispositivo.

In altri termini?

Mi chiedo anzitutto se il legislatore abbia messo a fuoco che già oggi l’articolo 630 del Codice penale (sequestro di persona a scopo di rapina o estorsione) non contempla la possibilità di ottenere benefici penitenziari salvo vi sia la collaborazione con la giustizia da parte del condannato. Per gli altri reati direi che la perplessità maggiore riguarda l’articolo 605, sequestro di persona semplice, sia pure con la conseguenza della morte del sequestrato. L’assimilazione nel ddl dell’articolo 605 ai reati di strage e di sequestro di persona a scopo di estorsione lascia molti dubbi.

Se il ddl diventasse legge, come cambierebbe il percorso detentivo delle persone sottoposte al nuovo regime di detenzione?

La conseguenza sarebbe un notevole prolungamento dei tempi prima di uscire dal carcere grazie a permessi o misure alternative. Rimarrebbe, a dare speranza, come unico beneficio la liberazione anticipata concessa solo in caso di buona condotta.  Non si può dire perciò che viene eliminato del tutto un orizzonte di speranza per il detenuto, ma certamente l’ampiezza di questo orizzonte si riduce. Come sempre, queste norme non saranno però retroattive per chi già ha fatto un percorso di rieducazione tale da poter ottenere dei benefici. Costui non li perderà con l’entrata in vigore di questa legge.

Dal punto di vista della sua esperienza, come valuta allora questo nuovo aspetto che si vuole introdurre?

Per la mia esperienza tendo a vedere con forte preoccupazione i meccanismi giuridici eccessivamente rigidi. Credo che un margine di discrezionalità, naturalmente purché sia ben orientata, è preferibile ad un meccanismo che non lascia margini. Allo stesso tempo nessuno può nascondersi che talvolta la discrezionalità è utilizzata male. Confermo quello che è sempre stato il mio orientamento: cercare il massimo rafforzamento della professionalità del giudice ed in particolare della magistratura di sorveglianza perché l’uso della discrezionalità sia ragionevole e sia dunque accettabile da parte della società.

Fatte tutte queste considerazioni, se entrasse in vigore questa riforma quali sarebbero le prime conseguenze?

Che avremo sicuramente detenzioni più lunghe per gli autori di reati gravissimi. Per fortuna costoro, nel quadro generale dei circa 67mila detenuti nelle carceri italiane. sono poche migliaia. Il problema del sovraffollamento del sistema penitenziario è dato da decine di migliaia di detenuti che scontano reati più leggeri, ma che riempiono il carcere perché ne fanno molti. E spesso ne fanno molti perché non hanno alternative di vita.