Sono tornato dalla Maremma finalmente a casa, dopo quattro giorni di sole e di assaggi. Io dico che esiste davvero il mal di Toscana, che ti prende magari alla domenica sera, nel centro di Grosseto, dove la gente gira in bicicletta o si siede sulle panchine della piazza del Duomo. Anch’io ho fatto così, mentre aspettavo di andare alla Locanda Dè Medici, ristorante-vineria dove svettano le bottiglie di Salustri, leader della Doc Montecucco e quest’anno fra i 100 migliori produttori di vini d’Italia. La cucina della Maremma, o meglio la gastronomia, è la somma dei suoi prodotti: il prosciutto crudo (di Franchi, di Mori, di Subissati), i salumi di cinghiale, i pecorini (oltre al Fiorino, ne ho scoperti molti altri, tutti meritevoli e che racconterò sul mio Golosario 2012). E poi la bottarga di Orbetello, lo zafferano, gli oli di quattro declinazioni territoriali diverse.
Il piatto che più identifica la Maremma, così come ha scritto Piero Citati questa estate sul Corriere della Sera e che ha raccontato anche Aimo Moroni, è l’acquacotta, un piatto povero dei pastori che ha un’eleganza tutta sua. Il mio amico Giancarlo Bini, grande esperto di olio, maremmano doc che vent’anni fa mi fece scoprire a Porto Santo Stefano la sua terra natìa e i suoi salotti, questa mattina mi ha inviato una nota sull’acquacotta, di cui voglio fare partecipi tutti.
Ingredienti: acqua, cipolla, sale, pane raffermo, peperoncino, pomodoro, lardo.



È andata così.

Nei boschi e nei campi fino a non molti anni fa, lavorava tutta la famiglia.

C’era appena il tempo di prendere fiato e tanta, tanta miseria.

Quando arrivava l’ora di mettere qualcosa nello stomaco, si accendeva il fuoco e si tirava fuori la vecchia, cara padella di ferro.

Una bella untata di lardo (eccezionalmente cotenna di prosciutto) e si facevano soffriggere la cipolla insieme a una punta di peperoncino che, naturalmente, non soffriggeva per la mancanza di olio, ma si abbrustoliva.



Poi aggiungevano acqua, sale, pomodoro, facendo cuocere il tutto sino a formare una brodaglia.

Nelle scodelle intanto si adagiavano fette di pane abbrustolito.

Pane raffermo di qualche giorno tagliato dalle pagnotte conservate nelle tasche della giubba di pilorre, ma tanto buono e profumato.

Tante fette di pane per quanta fame c’era in corpo.

Su questa base, veniva versato l’intingolo caldo della padella: ed ecco l’acquacotta, quella vera intendo, nata in Maremma; un piatto fatto di niente.

Qualche volta nella broda calda della padella finiva anche una foglia aromatica delle nostre erbe colta alla proda di un campo.



La domenica o quando la donna andava alla macchia per lavare i panni o rammendare, veniva posto su ciascuna ciotola un uovo preso, come si dice qui, direttamente ‘dal culo della gallina’: era il tocco magico della massaia!

Ora, tristemente, quasi tutti presentano questo piatto, (commettendo un falso e offendendo quell’antica miseria ) con olio, formaggio grattugiato, funghi, bietole, salsiccia… E potrei continuare.

Non sentendomela di falsare le cose semplici, vi ho detto dell’acquacotta vera, di quella del lavoro nei boschi e nei campi della nostra Maremma più amara, che poi è così bella ed è come la mamma: c’e n’è una sola.

Sarà retorica, ma certamente non c’è inganno.”
Voglio ringraziare Giancarlo per questo atto di amore, che dice quanta cultura ci sia in un piatto, molto di più – forse – di tante parole urlate e scritte.

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