Di recente sul Corriere della Sera Edoardo Boncinelli ha parlato della possibilità (tutta da provare) di prolungare la vita fino a centocinquant’anni tramite l’ingegneria genetica. Storia già sentita, ora riportata in auge dal libro di Sonia Arrison intitolato Cento e più anni. Niente di male, si dirà. Anzi, sento già i commenti: “Bene; basta che non si arrivi a 150 anni come dei catorci…”. Sforzi per prolungare la vita, che forse arriveranno a buon fine o forse no, perché tira e tira, passano gli anni e ossa, polmoni, occhi e nervi diventano di cartapesta e uno tira a campare fino ai 150 a forza di medicine, e questo non ci sembra un gran traguardo. Ma sforzi in apparenza positivi, che magari – in barba al nostro scetticismo ben fondato – oltre a far campare fino a centocinquant’anni, magicamente portano a curare anche ossa, occhi e cervello. Perché dunque non ci piace?



Perché, caro Boncinelli, è facile che quando il fortunato vincitore di un DNA modificato avrà passato la soglia dei cento, tutti o quasi i suoi amici siano morti, e statisticamente è facile che lo siano anche i suoi figli! E’ un vermetto a fare sognare gli scienziati sull’elisir di lunga vita: con qualche modifica genetica la sua vita può essere allungata cinque volte di più del normale. Potremo modificare anche i geni dell’uomo e ottenere il gran risultato di… saltare il passaggio delle eredità invece che da padre a figlio, da bisnonno a bisnipote? Abbarbicati, paurosamente abbarbicati alle cose: non si vuol morire e non si vuol lasciare il testimone.



E in questo Giovanni Verga era stato preveggente. Nella novella La roba, il ricco e cinico contadino Mazzarò, pur di non lasciar niente dietro di sé dopo la morte, dà fuoco a tutto, gridando impazzito: “Roba mia, vientene con me!”. Oggi non si pretende di dar fuoco a tutto; si pretende di non morire. Ma è lo stesso: un ridicolo attaccamento alla proprietà. E’ una medicina che non ci piace, anche perché, a fronte dello scarso giovamento del singolo, sono davvero pochi questi “singoli” che se ne potranno giovare; probabilmente i ricchi. E laboratori e ospedali si dedicheranno a questa ricerca, invece che a quella della cura della malaria che “tanto” è roba “da terzo mondo, e porta poca grana.



Boncinelli oltretutto ben sa che mettere le mani nel DNA è un’operazione che magari accomoda un ingranaggio, ma non sappiamo quanti altri ne allenta: il gioco che ancora non tutti hanno compreso si chiama “epigenetica”, ed è un gioco meraviglioso, ma anche fragile e terribile, perché racconta che basta poco per alterare il modo in cui il DNA viene letto e quindi le proteine che fa produrre.

Ecco perché questa medicina non ci piace: perché è il modo sbagliato di affrontare una paura. Non a caso viviamo nell’epoca del ridicolo “diritto al suicidio”, che è ridicolo perché la viltà o la disperazione non possono essere diritti, ma tristi evenienze da salvare, non foraggiare. Ma suicidio e pretesa d’immortalità sono le due facce della stessa ansia patologica di controllo. E non sono buona medicina.